lunedì 4 giugno 2007

Estratto da Molise Molise di Giose Rimanelli


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Chi sono i molisani?


Carne sofferente, perduta. Li ho incontrati in Italia, attivi nei vari giornali, negli ospedali, dietro le cattedre accademiche, nei ministeri. E li ho incontrati a Montreal e a Toronto, costruttori di case e autostrade; e nel Bronx di New York dove un molisano, Arturo Giovannitti di Ripabottoni, diventò il bardo dei lavoratori negli anni venti, degli umili e degli afflitti, guardando al loro futuro attraverso la lotta di classe.


Ninna nanna, figlio di mamma,


Chi t’ha cantata la mia canzone?


Sei nato di marzo come il rondone,


Come la rosa canina e l’agrigna


Mora dei rovi e delle fratte


 


E li ho incontrati in Argentina e nel Brasile, anche lì costruttori, esploratori, dissodatori cauti e precisi.


I molisani non sono una nazione e  nemmeno una regione, ma un seme certo, profondo, araldico.


Ma con mio padre è diverso. E’ stato sempre diverso.


Io me la prendo con lui ora, perché ho scoperto la sua esistenza. E in essa la mia. E in essa la nostra, di molisani col sacco sulle spalle e la fantasia che brucia.


Lui è nato dove sono nato io, un villaggetto tra le colline appenniniche del Molise meridionale che Polibio chiamò Cales, i feudatari medievali Kalena e Casalchilenda, e gli unionisti ante e post Risorgimento Casacalenda.


Qui ho ascoltato le prime nenie della mia coscienza. Ero un bambino e ho visto gli uomini piangere, non soltanto le donne, per una frana che era arrivata, una mula morta, una bambina sventrata dall’autocarro, e la siccità che ha bruciato il raccolto.


Una delle nenie diceva:


          Possa essere benedetta, Rosa mia.


          Teneva le carni come una pollastra.


            Dove devo andarla cercando ora, Rosa?


            Possa essere benedetta.


            Chi vuole più dormire la notte, rosa mia Rosa?


E un’altra:


          Marito mio, sono rimasta con quattro figli.


          Come devo fare? Ho faticato per chiamare il sole.


            Una figlia di diciott’anni, robusta e grossa, una giovanone.


            E ora piangi e piangi, ma che ci fai più col pianto?


            Non ho più la figlia mia, non ho più lacrime


Ricchezza mia, cuore di mamma, figlia mia.


 


Tegole volavano dai tetti nella mia infanzia sotto i venti furiosi che scuotevano la terra e le nostre viscere. Due persone morirono con una tegola in testa. Al Circolo dei Galantuomini ripetevano un’antica storia. «Anche Pirro è morto con una tegola in testa. ah».


Questi galantuomini uscivano dalle loro calde case nel buio dei vicoli per una partita a carte al Circolo, raccontando i fatti e i fattacci della giornata. Erano il farmacista e il sindaco, il medico condotto e l’arciprete, l’orefice e l’avvocato, il segretario comunale e il geometra.


Si chiamavano Tata, Giambarba, De Simone, De Liberis, Scocchera, Miozza, corsi, Vincelli, Montagano, De Lisio. Io li guardavo per sapere chi erano. E presto la storia di Pirro raggiunse anche i barbieri e i sarti e i calzolai.


Io non capivo. Ma più tardi lo seppi.


Si attribuisce a Livio la storia di Pirro morto in Argo per la tegola ricevuta sulla testa. Ma nel Molise Pirro è popolare per un’altra ragione. I Sanniti, in una delle loro campagne contro Roma, si allearono con i Bruzi, i Lucani, i Piceni, i Messapi e i Salentini. La guerra era divampata tra Roma e Taranto, e Taranto ricorse all’aiuto dei popoli italici, e di Pirro re dell’Epiro. Pirro intervenne con le sue truppe (portava elefanti), e Roma ne ebbe timore. Ma stanco delle lungaggini della campagna se ne tornò in patria con un pretesto, e vi morì… con quella tegola in testa, appunto.  I Romani si rianimarono e decisero di dare una dura lezione ai confederati.


Invasero il Sannio. E da quel momento il Sannio divenne colonia romana. Il ricordo di Pirro, dunque, era legato alla perdita della libertà.


In una farmacia del mio paese vi lessi quando avevo tredici anni, incisa in ferro sul frontone del palazzotto, la strana scritta:


                   Incerti unitas


Indubius libertas


In omnibus charitas


E mi chiesi cos’era questo mio paese.



Tratto dal romanzo di Giose Rimanelli Molise Molise,  Marinelli ed., Isernia 1979, pp. 9-11 


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