domenica 28 dicembre 2008

Buon Anno

top, arriva il  2009Molise d’Autore



             


con una poesia in dialetto molisano di Emilio Spensieri,  vi augura


 


  un felice anno


                 nuovo!


 


Speranza


 


                                                                                                                         


                   Mezzanotte! L’anne parte:


                        ze ne va senza salute…


                        Parte l’anne e ze ne sfuma


                        cumm’a negghia ‘entr’a ru ciele


                        a ru sciate de ru viente,


                        e tra l’ombre de ru tiempe


                        pare tutte e pare niente.


                        Ma funnìme ‘ent’a ru core


                        lassa pàlpete e suspire,


                        lassa lacreme s surrise,


                        lassa doce e lassa amare;


                        e nu tèrmene de ‘n’anne


                        - che njsciune cchiù destrujie –


                        bbuone o brutte, lassa a ognune.


                        Chi rreùarda che la mente


                        ru camine de quest’anne


                        pare sule ca rrevéte


                        nu lustrore de matina


                        che svanisce chiane chiane


                        tra la scuore de ‘na sera.


                        Niente cchiù!


                        No! n’è vere:


                        mille e mille so le cose


                        succedute e nen successe;


                        mille e mille le speranze


                        che può, spisse, so’ rremaste


                        nu cunforte de penziere.


                        ‘Ste speranze affastellate


                        ze le piglia l’anno nuove:


                        s’è cchiù triste o s’è cchiù bbuone


                        maje nisciune po’ sapè:


                        ma’ na voce ‘ent’a ru core


                        canta a cchi la sa senti’:


                        jè nu cante de speranza!


 


Speranze / Mezzanotte! L’anno parte:/ se ne va senza saluti… / ed ora va: Chissà dove va?/ Parte l’anno e sfuma / come nebbia nel cielo / al soffio del vento, / e tra le ombre del tempo / sembra tutto o sembra niente. / Ma in fondo al cuore / lascia palpiti e sospiri, lascia lacrime e sorrisi, / lascia dolce lascia amaro; / e un fine d’anno / – che nessuno più distrugge - / buono o brutto, lascia ad ognuno. / Chi rivede con la mente / il cammino di quest’anno / pare solo che rivede un lustrore di mattino / che svanisce piano piano / tra il buio della sera. / Niente più! / No! Non è vero: / mille e mille son le cose/ accadute e non accadute; / mille e mille le speranze / che poi, spesso, son rimaste / un conforto di pensiero./ Queste speranze affastellate / se le prende l’anno nuovo; / s’è più triste o s’è migliore / mai nessuno può sapere: / ma una voce dentro al cuore / canta a chi la sa ascoltare: / è un canto di speranza.


 


Emilio Spensieri, Cumme fusse allora…, Ed. Enne 


             


                             


 


 


                                                                    


 

venerdì 12 dicembre 2008

Tutto su Nino Ricci,

Nino RicciNino Ricci, Vite dei santi   


di Josée di Tomaso


 


La prima di una trilogia di Nino Ricci, novella nel contempo affascinante e drammatica, con emozioni forti, intense, potenti. La storia è appassionante dall’esordio alla fine.


 


L’argomento rimanda all’emigrazione massiccia verso l’America negli anni 60, che era una diretta conseguenza della vita misera degli italiani rimasti in Italia. Nel periodo del dopo-guerra, racconta come riesca a sopravvivere in modo il più normale possibile una famiglia in condizioni così anormali, la loro vita quotidiana in una comunità chiusa e primitiva.


 


La trama trae spunto da un fatto che avrebbe potuto realmente accadere. Inizia in Italia nel paese di Valle del Sole, piccolo borgo italiano dell’Apennine. Tratta dell’adulterio di Cristina rimasta sola nel paese col figlio di sette anni Vittorio, e che viveva nella casa del padre, dopo che il marito era emigrato in America. Questo adulterio è uno scandalo e una maledizione.


 


Cosa è successo davvero alla madre di Vittorio quel dì nella stalla? Era stata morsa da un serpente, era chiaro, visto il gonfiore alla caviglia. Ma c’era un altro gonfiore che la madre mascherava sotto abbigliamenti ampi, e che destava sospetti nelle donne del paese con il loro mutismo, silenzio eloquente, e sguardi buii, in maniera burbera. Cosa nascondeva Cristina, la madre affettuosa del piccolo Vittorio, in quella strana forma? La pancia della madre si va via via ingrossando e lo scandalo è totale. Si credeva allora che il morso dal serpente fosse una superstizione che creava il malocchio.


 


Infatti, Cristina, la donna fiera, sfrontata, sarcastica e bella, cade in disgrazia dinanzi a tutto il paese e suscita l’invidia e le critiche delle altre donne.


 


Siamo in presenza di una famiglia disgraziata, di un ragazzo sensibile e maturo strettamente dedicato a sua madre, una donna alla volta materna e liberata, un po’ misteriosa, una donna che sfida le norme del tempo, una moglie adultera. C’è sempre quel mistero davanti all’aggressività del nonno e l’aspetto sconfitto del ragazzo. Lui si vedrà distrutto, dovrà lottare per difendere sua madre nei confronti dei suoi compagni di classe e del suo caro amico Fabrizio. 


 


Che ne sarà del loro destino. Dinanzi al proprio padre, che soccombe alla vergogna della disgrazia, davanti alla sua incoscienza ed il vuoto intorno a lei, Cristina decide di partire. Alla fine ottiene il permesso d’emigrare in Canada col figlio.


 


Dopo la nascita della bambina e della morta di Cristina sulla nave, che ne  sarà di Vittorio,  ritornerà in Italia con suo fratellino dal nonno o si ritroverà con sua sorella dal padre in America? Che succederà quando il padre saprà che la bambina è la sorellina di Vito?  Tante domande senza risposta.


Il lettore si trova di fronte ad un forte mistero durante tutta la narrazione, combinazione di trame salde e di un episodio non ancora sistemato.


 


Il libro di Nino Ricci, il primo di una trilogia, “Vite dei Santi” (1990), capolavoro, di reputazione internazionale, è stato pubblicato in più di dodici paesi. È stato 75 settimane bestseller nel “The Globe and Mail”. In Canada ha vinto il premio del Governatore General, e il premio dal W.H. Smith/Books, “First Novel Award”, e il F.G. Bressani Prize; in Inghilterra si è aggiudicato il premio “Betty Trask” ed il premio “Winnifred Holtby”.  In Francia il “Contrepoint Madrineaux”.


 


Dalla sua narrativa è stata tratta anche una riduzione cinematografica di produzione italo-canadese del regista Jerry Ciccoritti, con l'attrice Sofia Loren, con Nick Mancuso, e Kris Kristofferson.


 


Non ho avuto modo di conoscere personalmente Ricci. Ma ho fatto delle ricerche su di Lui.


 


Nino Ricci è nato in Leamington, Ontario, Canada, da genitori dalla régione del Molise. Ricci se è laureato all’Università York di Toronto, all’Università Concordia di Montreal, ed all’Università di Firenze. Inoltre ha insegnato sia in Canada che all’estero.


 


A maggio, pensavo che mi mancasse il tempo di fare venire il libro in italiano.  Vite dei Santiche ho letto in inglese “Life of the Saints”, il cui titolo dava a pensare a una novella religiosa sulla vita dei santi: invece nulla del genere. Negli Stati Uniti è stato pubblicato con il titolo “The Book of Saints”.


 


Irresistibile, eccezionale, “Vite dei santi è un gioiello di romanzo e il suo autore è in grado di ricreare il mondo, e farci credere pure a una  finzione. 


 


Ricci ha una scrittura profonda, intensa, evocativa ma senza pretese. Un vero piacere leggerlo!


                                                                              Josée Di Tomaso, Montreal – Canada


 


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Intervento di Michela Baldo, che sta facendo un dottorato in teoria della traduzione all’Università Manchester (Gran Bretagna) sulla trilogia dei romanzi di Nino Ricci e sulla loro traduzione in italiano ad opera di Gabriella Iacobucci.  


 


 




 


      Nino Ricci è un autore che ho scelto un po’ per caso, interessata com’ero in origine al fenomeno della letteratura d’immigrazione in genere, e in particolare alla letteratura italo-canadese, conosciuta grazie ad uno stage di lavoro nel 2002 al consolato italiano di Toronto. Vite dei Santi è stato il primo romanzo della trilogia che ho letto e che ha ispirato la mia decisione di occuparmi di questo autore. Devo dire tuttavia che ne ho apprezzato a pieno il significato dopo averne letto il seguito (Nella Casa di Vetro, Il Fratello Italiano), dal momento che l’atmosfera vagamente neorealista ispirata dall’ambientazione (un paesino del Molise fra gli anni cinquanta e sessanta) assume un significato prettamente onirico se inserita in un contesto più ampio, nel quale l’intera narrazione diventa una riflessione sulla possibilità e impossibilità del narrare stesso.


       Grazie alle peregrinazioni mentali del protagonista ormai adulto che vive a Toronto in Il Fratello Italiano, e al suo ritorno al paesino molisano di Valle del Sole, lasciato a sette anni, nel tentativo di ricostruire una versione plausibile delle vicende del suo passato, capiamo che anche Vite Dei Santi non è che una delle varie versioni di una narrazione che non  si esaurisce in se stessa ma che si apre costantemente a nuove versioni, a nuove ricostruzioni. Questa e’ la grande forza di Vite dei Santi, il fatto di essere un romanzo che parla di dislocazione e del tentativo di risolvere questa doppia condizione che caratterizza gli immigrati soprattutto di seconda generazione come Nino Ricci. Ecco dunque che i termini e le parole italiane, dialettali e di una lingua ibrida, il cosiddetto italiese (un misto di italiano e inglese) nei testi di Ricci, di cui mi sono occupata nello specifico, sono esempi chiarissimi di questa dislocazione e del tentativo di risolverla, coniugando diverse prospettive, le une legate all’idea di Italia, le altre a quella di Canada.


   Vite dei Santi  dunque costituisce un esempio di letteratura che va al di la della nostalgica cronaca di un’immigrazione e che ci parla invece dei lasciti più subdoli dell’immigrazione, di quel senso di estraneità che persiste negli anni ma anche di quella condizione ibrida dell’Italo-Canadese che può trasformarsi in grande forza creativa. Questa forza penso sia stata anche alla base della decisione di tradurre i romanzi di Nino Ricci in italiano e mi auguro che altre traduzioni di opere italo-Canadesi continuino ad apparire.


                                                                                                                                                                 Michela Baldo


 


 


 

giovedì 11 dicembre 2008

Commenti sul

libro RicciSul libro del mese, Vite dei Santi, di Nino Ricci, abbiamo ricevuto una critica dettagliata dalla canadese Josée di Tommaso,  e un intervento di Michela Baldo, che inseriamo nel post successivo. Ecco, invece, i vari commenti pervenuti:


 


Stefania - Il titolo del libro mi ha disorientata. Non l’avrei mai comperato se non mi fosse stato detto di che  trattava. Sarebbe interessante sapere dall’autore perché ha accettato dal suo editore un titolo così equivoco. L’ho trovato comunque molto bello. Mi è piaciuta in particolare la descrizione precisa e dettagliata dei personaggi, soprattutto quando parla di Cristina, la sfortunata madre, e del paese Valle del Sole.


 


Stella - Bella la figura della madre che si va delineando nel racconto del figlio, un bambino di 7 anni.


Bella perché emerge con la sua fierezza e la sua forza in contrapposizione al conformismo del piccolo mondo paesano.


Bella nella sua tragica evoluzione: sposata ad un uomo inetto che emigra lasciandola con un bambino piccolo, da lei allevato con un amore istintuale e vitale, cerca di appagare la sua voglia di vivere attraverso incontri clandestini che le procurano una nuova gravidanza, a cui non rinuncia, incurante dello scandalo suscitato; Affronta da sola con il figlio un lungo viaggio in nave con la speranza di una situazione migliore, ma soccombe ad un destino crudele che le riserva la morte per parto durante la traversata.


 


Annamaria -   Lo sguardo che porta il romanziere su queste storie di emigrati e di radici perdute è profondo, sembra autobiografico. Lo è???


 


Daniela - Sono contenta di aver scoperto questo autore che non conoscevo. Mi è piaciuta questa saga familiare lunga di 20anni.


 


Sandra - Per me, che l’avevo già letto alla sua uscita nel 1994, avevo trovato la visione di Ricci del Molise del 1960  un po’ troppo arcaica, probabilmente pescata dalle letture fatte dall’autore,  quindi non reale. Però il romanzo è molto bello e Ricci ha saputo nei due libri successivi intrecciare le storie, i sentimenti umani,  le atmosfere in modo avvincente, coinvolgente.


 


Maria Pia - L’ho letto con molto interesse perché una parte della storia è ambientata nel Molise ma anche perché è scritto davvero bene. Vorrei poterlo leggere in inglese per capire quanto c’è della traduttrice in queste pagine. 


 


Giulia -  Io ho letto  La terra del ritorno. Mi pare che sia la stessa cosa o no?


 


Giovanni -  Ogni lettore e lettura  ha i suoi tempi. Ricordo che da giovane leggevo avidamente i romanzi di avventura. Poi sono venuti i gialli, i romanzi d’azione, i romanzi-storici. Insomma le mie letture evolvevano come il mio carattere. Ora, in questa fase della vita, quest’opera,  l’ho trovata un po’ ostica, non sono riuscito a far mia la storia di questa donna fedifraga, il cui marito è partito per l’America e che si concede ad un  bel soldato. Non è la scrittura, che ho trovata invece limpida, chiara,  ma la trama iniziale, che mi ha reso poco partecipe. Probabilmente, per me, non è il momento giusto per questo tipo di romanzo, chissà…. 


 


Pina - Bello, struggente il romanzo, ma altrettanto bello il romanziere. Gabriella perché non me lo presenti, è sposato?


 


Per rispondere ad Annamaria, il romanzo non è autobiografico anche se ispirato a fatti e situazioni reali. In quanto a  Giulia,  La terra del ritorno è il titolo della trilogia pubblicata dall’editore Fazi che contiene Vite dei Santi, La casa di vetro e Il fratello italiano. Tutti e tre i volumi sono stati tradotti in italiano da Gabriella Iacobucci


La terra del ritorno è anche il titolo del film tv diretto da Jerry Ciccoritti e interpretato da Sophia Loren nella parte della zia del protagonista e Sabrina Ferrilli in quella della madre Cristina.


La traduttrice fa sapere a Pina che sì, Nino purtroppo è felicemente sposato con una bella ragazza canadese, scrittrice anche lei, e ha un figlio che si chiama Luca.


 


Per la bibliografia completa su questo autore, vi rimandiamo al "sito di Nino Ricci" che trovate nei link a destra di questa pagina.


 


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Vite dei Santi, recensione in francese:


Sous le signe du serpent


par Nicole Zand


D’origine italienne, comme son nom l’indique, Nino Ricci – né en 1959, cinq ans après l’arrivée de ses parents au Canada – semble s’être immergé, comme s’il y avait toujours vécu, dans un village de Molise dont sa mère est originaire pour nous donner cet adieu à l’enfance au titre étrange : « Les Yeux bleus et le Serpent ».


Vittorio Innocente, le narrateur, vit dans un village des Appennins qui semble isolé du monde moderne, avec sa mère Cristina, et son grand-père. (…)…  Il n’a pas tout à fait sept ans, le premier âge de raison, quand va se produire le tournant de son existence : «Si cette histoire a un commencement, si un geste suffit à briser la surface des événements, tel un galet décrivant  d’innombrables ricochets sur la mer, ce moment s’est produit par une chaude journée de 1960, dans le village de Valle del Sole, lorsque ma mère a été mordue par un serpent.»


…. (…) Tout un monde de symboles psychanalytiques, chrétiens, paїens, magiques, qui se répondent d’un bout à l’autre du livre, imbriqués à tel point que l’explication freudienne (ou jungienne), trop tentante, ne saurait seule en rendre compte. S’il n’y avait, plus fort que toute interprétation rationnelle, le pouvoir d’une fiction qui, avec ses fantasmes, ses rêves et ses obsessions, nous fait passer de l’autre côté du miroir grâce à la recherche d’un temps perdu par un enfant de sept ans. 


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mercoledì 3 dicembre 2008

Recensione

Don Delillo, ritrattoDon De Lillo, I Nomi


di Rita Frattolillo


 


I Nomi di Don De Lillo è uno di quei romanzi di cui senti l’urgenza di parlare ben prima di arrivare all’ultima pagina, la 376. E che ti lascia soprappensiero  per l’impressionante capacità rielaborativa e organizzativa della massa magmatica di conoscenze e di esperienze introiettate dall’Autore, il quale le affida per lo più ai numerosi dialoghi che strutturano l’opera.


Sin dall’incipit si colgono l’ineluttabilità e la casualità che governano gli uomini, i cui brandelli di esistenze in bilico nel vortice di vite sradicate – come in certe ballate medievali - sono sfiorati dal protagonista James Axton, allo stesso modo in cui le onde incessantemente lambiscono e lasciano la riva.


Il lavoro ingarbugliato di James, ex scrittore  con base ad Atene in qualità di analista di rischio per una compagnia assicurativa americana, se da una parte  non allevia la sua complicata solitudine di padre privato del figlio Tap e di marito profondamente legato alla ex moglie Kathryn – che ama di più per il fatto di vivere separati - , dall’altra lo fa incrociare con gente multinazionalizzata che ha girato il pianeta e con cui si ritrova, in incontri ufficiali e non, a bere drink e scambiare conversari alla Jonesco sui massimi sistemi o su banalità, trattate sempre come massimi sistemi.


Il fatto è che la vita altrui brulica e corre tra un atterraggio d’aereo e l’altro in posti dai nomi profondamente evocatori: Amman, il Mani nel Peloponneso, Gerusalemme, Bombay, Lahore, mentre James sente che la sua vita gli scorre tra le mani e non riesce ad afferrarla. “Mi elude, mi sfugge”- confida al direttore degli scavi Owen -, così come, pur viaggiando per lavoro , si convince che i luoghi gli sfuggano, di non viaggiare “mai all’interno di essi”, a differenza di altre persone, che passano il tempo ad acquisire il “senso” del posto oppure a impararne il ritmo.


E invece proprio di un viaggio “all’interno” si tratta, dal momento che le descrizioni dei tanti luoghi esotici toccati da James  fanno respirare l’atmosfera irripetibile che emanano, i colori e gli odori,  ne catturano l’essenza magica, quasi che l’A. ne avesse prima succhiato, masticato la sostanza.


Ma non è tutto, perché questo newyorkese di origine molisana, mentalmente distante dagli italiani, che nomina distrattamente in tutto il romanzo solo un paio di volte, sente nelle carni il fascino dell’ellenismo – indimenticabile la descrizione dell’Acropoli che significativamente apre e chiude la storia – e prova un arcano “senso” verso le antiche civiltà affacciate sul Mediterraneo. E allora sono pagine straordinarie in cui affiora un io profondamente soggiogato dalla reminiscenza di un passato comune, e dall’archetipo di una vita dedita alla contemplazione di un mitico ideale atemporale di natura armonia bellezza.


Un io che è anche profondamente soggiogato - quasi ossessionato - dalle lingue, dal potere trainante dei suoni delle parole, dai nomi delle cose che si conoscono e soprattutto da imparare.


Fin dal titolo del romanzo il pensiero era corso a Proust, alle pagine della Recherche dedicate ai nomi, e quest’opera di De Lillo si qualifica ulteriormente per l’attenzione speciale a questo tema, esplorato con sottigliezza ed originalità in diversi momenti.


Non è certo un caso che Owen, poliglotta sulle tracce di epigrafi antiche, diventi una figura centrale verso lo snodo conclusivo della storia, e non è un caso che la setta assassina - che attrae Owen, James e il regista Frank Volterra fino a “inseguire” le orme del culto omicida - si chiami “I nomi”(in greco Ta Onòmata), né che il rituale omicida contempli il legame alfabetico tra i nomi delle vittime e il posto del crimine.


E d’altronde questo romanzo (che è del 1982 ma è stato pubblicato in Italia solo nel 1990) mette in risalto lo stile notevole  di De Lillo, la sua scrittura raffinata e selvaggia, che non disdegna gli ossìmori, gli accostamenti inattesi, che mischia descrizione fisica e caratteriale, una scrittura, infine, a couches sovrapposte, capace di intrecciare pensiero (desiderio) e parole divergenti. Insomma, I nomi è una lettura imperdibile per la forza immaginativa che sprigionano le pagine, l’intelligenza vivida, la profondità dei sentimenti e l’abilità creativa di De Lillo.


 

Commenti e soluzioni su Don DeLillo

delillo l 


Commento di Wick su L’uomo che cade di Don DeLillo


Ecco, ho finito l’ultimo di DeLillo che avevo tanta fretta di leggere. E mi è piaciuto? Sì, certo che mi è piaciuto.
Prima di tutto c’è la scrittura, come al solito eccezionale. E non mi sarei aspettato niente di meno, sia chiaro. La capacità di Don DeLillo di creare questo vuoto pneumatico attorno ai suoi personaggi è sempre da brivido: il suo stile è austero, algido, spietato. È impietoso con i suoi personaggi e li mantiene sempre ad una certa distanza, così come la mantiene dal lettore: non ti rende simpatici i protagonisti, non te li fa compatire, non ti fa immedesimare. Insomma, non ti dà di gomito mentre ti racconta una storiella (come fa, ad esempio, un buontempone come Pynchon), ma ti mette lì davanti alla sua visione della vita, nuda e cruda.
E la storiella in questione, L’uomo che cade, parla dell’America dopo l’undici settembre, e lo fa senza mai nominare l’undici settembre: viene chiamato sempre “il giorno degli aeroplani”. E già in questo non nominare il giorno della catastrofe si può vedere la reazione che i personaggi hanno all’attentato, questo dettaglio così piccolo ma così evidente è solo uno dei tanti esempi che potrei fare della scrittura geniale, minuziosa e affascinante di DeLillo.


 


 


 


Commento del Sig.Carlo su L’uomo che cade di Don DeLillo


Ce ne ho messo di tempo per finire di leggere questo libro: troppo, se si pensa che non è per niente grosso, circa 250 pagine. Dipende in gran parte da me, che non mi ci sono proprio immerso, a causa di vari altri impegni, ma c’è qualcosa nella scrittura di DeLillo che mi rallenta incredibilmente.


DeLillo è asciutto ed essenziale. Freddo e spietato. Forse è questo che rallenta il mio coinvolgimento e la lettura.


A parte queste considerazioni inutili, il libro è bellissimo, probabilmente anche per merito di questo suo modo di scrivere. Parla dell’America durante e dopo l’11 settembre, dopo l’attentato. Anche se in realtà non parla proprio dell’America, ma più che altro delle persone, di un certo numero di persone. L’attentato, gli aeroplani contro le torri, l’evento che ha sconvolto il mondo intero è quello che unisce le loro storie e che ha stravolto le loro vite, ma a parte questo il libro è fatto dai personaggi, dal loro affrontare la vita dopo la catastrofe. Dalla loro consapevolezza che niente sarà più lo stesso.


www.blogdegradabile.net


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Risposte a “Domande per voi” su Don DeLillo


Qual è il titolo originale dell’opera?


Il titolo originale dell’opera è “THE NAMES”


Di che paese molisano sono originari Pietro e Lina, genitori di Don?


I genitori di Don sono di Montagano  (provincia di Campobasso)


In quale quartiere newyorchese ha vissuto Don durante la  sua infanzia?


Il quartiere è il Bronx


Quale scrittrice italiana ha introdotto le opere di DeLillo in Italia quando era ancora un perfetto sconosciuto?


Fernanda Pivano


Quale romanzo di questo scrittore tratta dell’assassinio di John Kennedy?


Libra


Il suo ultimo romanzo, L’uomo che cade (Falling Man) di che cosa parla?


Dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001


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Le risposte sono state date da: Giovanna, Simo, e Francesco.