domenica 22 febbraio 2009

Nino Amoroso, Sabino D'Acunto e l'autonomia della stampa molisana

1949, costituzione Associazione stampa molisanaAnno 1949, costituzione dell’Associazione della Stampa molisana, i protagonisti:



(tra gli altri) al centro della foto in piedi da sinistra: Sabino D’Acunto, Nino Amoroso, Giuseppe Tabasso. Sempre in piedi Padre Eduardo Di Iorio e Emilio Spensieri (con lo sguardo in basso).  A destra, seduto, Silvestro Delli Veneri e sul lato sinistro, in piedi, Corrado Caluori e Pasquale Carchietti.


 



 


Nino Amoroso ricorda Sabino D’Acunto



 


Con Sabino D’Acunto ho avuto un lungo percorso di vita e di impegno professionale e giornalistico, iniziato un giorno della primavera dell’anno 1949. Con mezzi di fortuna, gli unici disponibili nell’immediato dopoguerra, ed attraverso strade sconnesse e valicando i tornanti del Macerone, siamo andati a L’Aquila in Abruzzo, insieme ai colleghi Corrado Caluori, Pasquale Carchietti e Nicola Todisco, per rivendicare, in sede di congresso, l’autonomia molisana dall’allora Associazione della Stampa abruzzese.


In una giornata densa di vivaci discussioni e polemiche, con aspre contestazioni da parte dei giornalisti abruzzesi, riuscimmo ad ottenere il distacco e la nostra autonomia che è stata tra le prime istituzioni della nostra regione ad ottenere questo importante riconoscimento.


Alcuni giornalisti abruzzesi, al termine del Congresso ci salutarono dicendoci a gran voce:


«Vi lasciamo al vostro destino provinciale senza avvenire, come un romantico cenacolo di pubblicisti». Le parole polemiche c’erano state rivolte da Remo Celaia, allora Presidente dell’Associazione e da Lino Manocchio, con il quale io avevo in precedenza dibattuto la questione sulla pagina dell’allora quotidiano “Il Momento” di Roma  nel quale avevamo una pagina insieme Abruzzo-Molise, e, quindi, ero l’unico ad avere un contraddittorio diretto con la stampa abruzzese.


Lino Manocchio, successivamente, fece una rilevante carriera giornalistica, quale corrispondente da New York di importanti quotidiani italiani.


Con Sabino D’Acunto, su quella battuta, ci facevamo delle grandi risate, anche a distanza di anni, perché dopo pochi mesi dalla separazione dall’Abruzzo, il 28 agosto 1949, abbiamo costituito, a Campobasso, l’Associazione della Stampa molisana che ha rappresentato uno dei primi impegni culturali e professionali dell’autonomia regionale del Molise, che solo nell’anno 1963 è stata ufficializzata con legge delle Stato.


In una delle belle pagine, che Sabino D’Acunto amava scrivermi e, forse tra le ultime della sua esistenza terrena, mi comunicava: «Prima di recarmi a messa, desidero ringraziarti ancora per le belle ore che ieri mi hai fatto trascorrere con te. Spero di rivederti presto per parlarti di una mia idea: realizzare con te la storia del giornalismo molisano; se un giorno in cui non hai molto da fare, ti aspetto». Non ho fatto in tempo, purtroppo, ciao Sabino.

sabato 21 febbraio 2009

Risposte su Sabino D'Acunto

 Nessuno ha saputo rispondere alla domanda n.6, quella sulla preghiera del “Padre nostro”. Ecco, quindi,  il commento di Rita Frattolillo:


 


L'aggiornamento del "Padre nostro" da parte di Sabino è raccontato da Natalino Paone. Dunque, D'Acunto a otto anni passava le vacanze dai nonni paterni, che erano molto religiosi, a Nocera Inferiore, e ogni sera, nella loro casa si recitava il santo rosario. Arrivati al "Padre nostro", Sabino faceva una modifica: là dove è detto"non indurci in tentazione", diceva" Allontana da noi le tentazioni". Alla terza sera, il nonno interruppe tutti chiedendo al nipote il perché di quella variante. Al che, sicuro di sé, il bimbo rispose che non era possibile attribuire a Dio prerogative che appartenevano al Demonio. E' costui, infatti, ad avere il compito di far peccare l'uomo inducendolo in tentazione, mentre Dio doveva impedire che ciò avvenisse. Tanto più che, per allontanare l'uomo dal peccato, aveva sacrificato il proprio figlio, Gesù...  Il nonno andò su tutte le furie, telegrafò al genero perché venisse a riprendersi il bambino, che, oltre tutto con quella sua riflessione aveva mandato a monte i sogni dei parenti su un  suo possibile luminoso futuro clericale.


 


 


Le risposte  alle domande su Sabino D’Acunto  sono state:


 


Che D’Acunto avesse riscritto il Padre nostro non lo sapevo. Ma una spiegazione potrebbe essere questa: egli dice nella novella “Perché non sono diventato vescovo”, che nella sua famiglia c’era una forte contrapposizione tra la mamma religiosissima e il padre agnostico, che aveva rifiutato di far battezzare il figlio. E lui, molto intelligente, preso tra questi due fuochi, rifletteva!


Comunque i racconti di “Una manciata di miglio” , tratteggiati con una scrittura limpida, talvolta tristi e talvolta gioiosi,  vanno direttamente al cuore. (anonimo)


 


Annamaria:


Sabino D’Acunto, nato ad Isernia nel 1916, narratore, poeta, commediografo, giornalista, saggista è stato uno dei personaggi più importanti e rappresentativi del mondo culturale molisano. Ha scritto tantissimo e di tutto. Come autore di teatro la sua commedia: “Mo’ ze sposa Celecstrino”, è stata rappresentata nel mese di settembre al Teatro Savoia di Campobasso con grande successo. Ma anche nella raccolta “Una manciata di miglio” ci sono due commedie: “Il gran rifiuto” (su Celestino V) e “Cesarea è lontana”.


 


Roberto:


La figura intellettuale di Sabino D'Acunto, nato ad Isernia nel 1916, si segnale sopratutto perché è una delle voci poetiche più rappresentative del '900 molisano.


 


 


Antonio:


1. Sabino d’Acunto era nato ad Isernia nel 1916, morì a Sessano del Molise nel febbraio del 2004


2. Autore fertile, un vero vulcano della natura, D’Acunto, nella sua lunga vita, scrisse di tutto. Tra i titoli delle sue poesie: “Lettera dal Molise”, “Sulla strada di Emmaus”, “I miti e l’uomo”.


3. Il teatro è stato importante nella produzione di D’Acunto, soprattutto quello dialettale.


4. Di riconoscimenti e premi ne ebbe molti.   L’anno scorso la città di Agnone gli ha dedicato una serata dal titolo “Caro Sabino”.


5. D’Acunto fu Sindaco di Isernia nel Dopoguerra.


6. Questo non lo so.


 


Maria:


Sabino D’Acunto  ha scritto per numerosi giornali fin da 1947. Si muoveva inoltre  in un contesto internazionale. Infatti, era direttore del Bulletin Européen della Fondazione Dragan 

mercoledì 11 febbraio 2009

Filo diretto con Marco Micone

Addolorata, pièce teatraleMarco Micone risponde alla domanda posta a tutti gli scrittori: Qual è stato il motivo, la lettura, l’incontro, che ti ha fatto capire, per la prima volta, che avresti deciso di dedicarti alla scrittura?

Ma poiché la sua replica è articolata e coinvolge il suo vissuto prima e dopo la sua emigrazione in Canada, ha preferito dare un titolo diverso al suo commento-saggio. Commento che analizza in particolare anche la sua opera di traduttore e commediografo.

Molise d’Autore lo ringrazia per questa importante testimonianza.



(La traduzione del testo è di Anna Moffa)





Scrivere e tradurre tra due lingue e due culture



Ho passato la mia infanzia nel Sud rurale dell’Italia colonizzata e impoverita dal Nord industrializzato. Le invettive razziste indirizzate ai terroni meridionali avevano lo scopo di attribuire a noi la nostra inferiorità sociale ed economica. Per lungo tempo mi sono vergognato del mio dialetto: la mia lingua materna. L’accento sibilante della Padania mi sembrava molto più bello della mia parlata a scatti. Quando ho capito che la mia situazione linguistica era analoga a quella dei francofoni del Québec, mi sono unito alla loro lotta. La difesa del francese si è così sostituita a quella del mio dialetto.



Per lungo tempo ho avuto paura delle parole. Ho iniziato ad avere paura di non comprenderle, poi di non averne a sufficienza prima di farle mie, di macinarle, di inventarne e di goderne fino a tradirle.

La paura di non comprenderle è cominciata molto presto, alle scuole elementari. Fui stupito che lì non m’ insegnassero le parole che utilizzavo tutti i giorni tenendo conto che coloro che l’avevano frequentata non parlavano diversamente dagli altri. Dall’inizio del secondo anno, il maestro ci obbligò a comprare un taccuino nero nel quale dovevamo annotare tutte le parole dialettali utilizzate in classe e trovarne il corrispettivo italiano. Il compito ci era sembrato così arduo che dopo qualche settimana eravamo diventati tutti afasici. Questo fu il mio primo dizionario. Non ho conservato questo mio primo quaderno, ma ho conservato l’abitudine di annotare delle parole in un taccuino dello stesso colore.

Alla fine delle elementari, mi sono ritrovato convittore in un seminario minore, lontano da casa mia, dove la repressione contro l’uso del dialetto era di una rara efficacia. Appena alzati, uno dei preti sorveglianti andava a caccia del primo colpevole e gli consegnava discretamente una chiave che costui si premurava di nascondere nella propria tasca partendo immediatamente alla ricerca di un altro trasgressore, e così di seguito fino all’ora di andare a dormire. L’ultimo possessore della chiave la utilizzava per entrare in una stanza ed auto-punirsi copiando due pagine del dizionario Garzanti.

Ma la paura fece posto al panico quando mi ritrovai, l’anno seguente, in una scuola francese di Montréal. Il primo giorno, sono tornato a casa con una lista di parole che dovevo imparare a compitare. Una sola occupò la mia mente tanto mi sembrava strana. Ripetei centinaia di volte BE A OU CO OUP credendo che fosse la pronuncia esatta. Il giorno dopo, non riconoscendo la parola così come pronunciata dal professore, me la sono presa con mio padre per essere emigrato e con mia madre per aver creduto che io avessi bisogno di lui.

A lungo ho avuto anche paura di non avere parole a sufficienza. Dopo aver frequentato una scuola francese per due anni, i miei genitori mi iscrissero ad una scuola media inglese. 


 Le classi di accoglienza non esistevano ancora. Io restai per giorni seduto in aula, senza capire nulla, aspettando la fine delle lezioni per ritrovare i miei amici italiani in palestra o sui campi di gioco. Ho atteso settimane prima di porre la prima domanda dopo averla ripetuta decine di volte nella mia testa. Ho avuto subito il presentimento che non sarei mai riuscito ad avere la padronanza di questa lingua tanto mi sembrava differente dall’italiano. Alla scuola francese, avevo rapidamente afferrato le corrispondenze tra il francese e l’italiano. Riconoscevo facilmente le radici comuni e le somiglianze sintattiche e grammaticali. Avevo l’impressione che imparando il francese rimanessi su di un terreno conosciuto, attingendo alla stessa fonte di quella dell’italiano e che con il tempo sarei riuscito ad appropriarmene correttamente, mentre l’apprendimento dell’inglese mi era apparso come un’impresa titanica, insormontabile. Non trovavo nessuna logica né nella sintassi, né nell’ortografia e ancora meno nella pronuncia. Alcune parole mi sono sembrate così strane che non solo ricordo la prima volta che le ho sentite in classe, ma non ho mai dimenticato coloro che le hanno dette. Così posso ancora citare i nomi dei miei compagni che hanno pronunciato per la prima volta davanti a me flabbergasted, extracurricular, spooky, etc. C’è voluto del tempo per capire che la ragione principale, per la quale sono uscito da questa high school con una conoscenza approssimativa dell’inglese, non era dovuta alla sua complessità intrinseca ( che non è maggiore di quella del francese o dell’italiano) ma per il metodo e per le condizioni del suo insegnamento. Sarebbe stato sorprendente che io fossi riuscito ad apprendere la lingua di Shakespeare dopo quattro anni di high school ascoltandola solo in classe ( dal momento che non facevo che udirla), poiché fuori io parlavo unicamente l’italiano ed il francese. La paura di non avere abbastanza parole mi farà abbandonare la scuola inglese.

Avendo iniziato gli studi di letteratura francese, questa stessa paura mi spinse a riprendere l’abitudine di annotarne in un quaderno di colore nero. Il mio primo dizionario Larousse appena comprato era troppo generico. Avevo bisogno di una mia personale lista di parole che spigolavo sul filo delle mie letture eclettiche. Ero alla ricerca di termini rari che avrei eventualmente utilizzato per dimostrare che mi ero affrancato dalla mia originaria afasia ed ignoranza. Ho preso allora l’abitudine di leggere il dizionario e di annotare le parole degne nel mio quaderno nero. Quando ho deciso di scrivere delle opere teatrali sugli immigrati italiani, ho scoperto che quelle che collezionavo non mi erano di alcuna utilità. Il problema da risolvere era il seguente: come far parlare, per un pubblico francofono, degli immigrati di origine italiana, di condizioni modeste, poco scolarizzati e che parlavano poco e male il francese? Decisi di utilizzare una lingua molto semplice mista all’italiano, per i personaggi adulti, e infarcita di inglese, per i personaggi giovani. Ho voluto così evocare, tanto in Gens du silence che in Addolorata, la diversità culturale della società quebecchese, ma anche la confusione linguistica che vi regnava prima della Legge 101.

Se ho iniziato a scrivere per il teatro è a causa della mia insicurezza riguardo al francese… insicurezza che era dovuta in gran parte alla situazione simile ad una Babele nella quale avevo vissuto nella mia adolescenza. Per quanto collezionassi parole, ero consapevole che la scrittura romanzesca e la traduzione letteraria richiedono una conoscenza approfondita di tutti gli aspetti della lingua, senza dimenticare quella della letteratura. Solo dopo aver pubblicato vari articoli nei giornali su argomenti di attualità e dopo aver scritto qualche opera teatrale, ho acquisito la sicurezza necessaria per scrivere un racconto e per tradurre delle opere del repertorio classico italiano.

Ho scritto per il teatro per regolare dei conti: contro la mia comunità, contro l’autorità paterna, contro il potere. Ho scritto spesso in disprezzo all’ esigenze dell’arte teatrale. E’ quando ho scritto  Le figuier enchanté che ho provato pienamente il piacere della scrittura: questa gioia inesplicabile di attingere nella memoria e nell’immaginario, d’inventare dei personaggi che non ci lasceranno più e grazie ai quali non saremo più soli, di immaginare o ricreare dei luoghi che abiteremo per sempre, di cercare di raggiungere la verità, la mia , che è un po’ anche quella degli altri: la verità dei sentimenti o quella che rende me, noi, umani, e che qualche volta è sepolta sotto tanta insincerità e codardia. Senza il quaderno nero, tuttavia, il piacere non sarebbe stato lo stesso. Nelle sue pagine ho trovato la parola abot con cui ho composto il titolo di uno dei capitoli, La femme aux abots. Amavo il gioco di parole. Amavo anche me, l’immigrato, l’idea di costringere i lettori francofoni a consultare il dizionario e a darmi ragione dopo aver pensato che io avessi torto. Ho ripetuto lo stratagemma con la parola exorde che molti lettori hanno senza dubbio creduto scritto in modo scorretto. In un libro che tratta dell’immigrazione ci si aspetta normalmente di trovare la parola exode, mentre aggiungendovi una r ho voluto indicare che era il capitolo iniziale del libro. I lettori del mio racconto hanno certamente consultato il vocabolario anche per èteules, lèmure e qualche altra stranezza. Quanto a amigré, névasse e ménéfréghiste: la prima parola è la parola valigia, la seconda, névasse (peggiorativo di neve, dal latino nix nivis, al quale ho aggiunto il suffisso asse), un neologismo che designa la sloche (non ho mai capito perché in un paese di neve non sia stato coniato un termine che non sia un anglicismo o una onomatopea), e l’ultimo, ménéfréghiste (menefreghista) è un italianismo che volendo richiama  la contaminazione subita dal francese quebecchese a contatto con lingue di immigrati.

Scrivere in un ambiente cosmopolita e plurilingue è scrivere tenendo conto delle altre culture e delle altre lingue. Essere plurilingue in un contesto cosmopolita significa constatare l’impossibilità di tradurre con una lingua sola la realtà complessa che ci circonda, ma anche trovarsi in una situazione di passaggio e di scambi continui tra due lingue. Sarebbe quella, tra lingue dove si afferra il meglio, una realtà che non cessa di trasformarsi? Non è l’essenza della traduzione e del traduttore situarsi tra due lingue?

Durante gli anni Novanta ho tradotto Pirandello, Goldoni, Gozzi e Schakespeare. Ognuna di queste traduzioni era una trasformazione del testo originale. Tra le numerose battute che ho aggiunto alla Bisbetica domata, vi era questa: “Petrucchio, perché siete così sicuro di poter sedurre Caterina?Perché, risponde lui, se io fossi una donna, è un uomo come me che sposerei.” Mentre la sala del TNM era scossa dalle risate, una spettatrice seduta accanto a me ha gridato: ma questo è Shakespeare!

L’anno seguente, alla presentazione del mio adattamento de La Serva amorosa di Goldoni, allo stesso teatro, c’era Markita Boies, mirabile Corallina, seduta a fianco a me in uno studio di Radio-Canada. Al giornalista che le chiedeva perché amasse tanto Goldoni, lei rispose che era per via di battute come questa: La nobiltà del vostro animo giustifica la casualità della mia nascita. Io ho allora immaginato uno spettatore che esclamava la sera della prima: questo è Goldoni! E’ questo che io chiamo il cavallo di Troia della traduzione.

Non si traduce un testo teatrale come si traduce una poesia o un romanzo. Per essere rappresentabile in scena, una traduzione teatrale deve essere il risultato di un lavoro drammaturgico e non solo linguistico. Il traduttore teatrale deve ricreare la totalità artistica, tener conto delle esigenze di scena e del gioco degli attori. Egli ne è il primo regista. Come interprete del testo originale, egli divide, però, questo compito con gli artigiani della scena che diventano tutti degli interpreti del testo da tradurre e da rappresentare, dei tramiti di una cultura che non sarà più la stessa alla fine. La traduzione è allo stesso tempo uno strumento critico e di conoscenza. Essa, inoltre, è uno spostamento che consente non solo un punto di vista altro sull’opera da tradurre, ma anche uno sguardo tra, come in tradire: dire tra (in italiano tra = entre): tra le parole, tra le lingue, tra le culture, tra gli immaginari. Traduzione come tensione, dunque, senza dimenticare quella mai risolta tra l’autore ed il traduttore.

Ogni traduzione è un adattamento. Una traduzione letterale o assolutamente fedele non esiste. Ci vorrebbe per questa una perfetta corrispondenza tra due lingue, due culture, due immaginari. Anche tra la sensibilità dell’autore e quella del traduttore. Nel caso di un testo di teatro classico, il traduttore è prima di tutto un lettore privilegiato che non deve esitare ad appropriarsene per renderlo adatto ad un lettore contemporaneo. “ Credere che un testo sia definitivo denota fede o…stanchezza”, dice Berman. Quello che conta in una traduzione è, più che  il suo valore riguardo all’opera originale, la sua nuova coerenza. Non bisogna neanche farsi terrorizzare dai classici. Quest’ultimi devono servirci …a comprendere il passato ed il presente. Da qui la libertà, se non l’obbligo, di adattare, di trasgredire fino a farne un Cavallo di Troia di idee il cui valore è decuplicato dal semplice fatto di essere attribuite ad un autore classico. E’ quello che ho fatto con i miei adattamenti. Tradurre dunque come tradire. Un traduttore servile è come un traghettatore di morti, dirà Meschonnic.

La traduzione deve anche avvicinarci all’altrove e allontanarci dal qui per relativizzare i nostri modi di vita e la nostra visione del mondo. Deve successivamente farci oscillare tra i due, nella ricerca infinita di un improbabile equilibrio.

Alla fine degli anni settanta, ho scritto Gens du silence. Ho voluto dare la parola ai senza voce, a coloro la cui lingua era quella del silenzio e dell’impotenza. Desideravo che gli spettatori di qualsiasi origine potessero riconoscersi in questi personaggi. Era necessario dunque che essi si esprimessero in francese per essere compresi dalla maggioranza, un francese popolare di grande semplicità, ma evitando il joual (ndr. dialetto del Québec a base di francese, fortemente contaminato dall’inglese), poiché questo era appannaggio dei francofoni. Qualche parola italiana che infarcisse i dialoghi ricordavano che Antonio, Anna ed Annunziata parlavano una lingua che non era la loro. I personaggi la parlavano come se essi s’esprimessero in italiano, perché lo scopo era di raccontare i sogni e i tormenti di questi sradicati senza fare del folklore. Il disorientamento individuale e collettivo era incarnato da Mario e dal suo gruppo di amici che mescolavano l’italiano, il francese e l’inglese. Una lingua tra le lingue.  Un linguaggio a immagine della società prima delle legge 101. Riscrivendo Gens du silence , venticinque anni dopo, ( prima in italiano, poi in francese) in un Québec dove il francese è diventato la lingua comune per la maggioranza della popolazione, ho fatto in modo che questi personaggi dai nomi italiani si esprimessero come dei francofoni perché questa lingua fosse al tempo stesso un modello e un simbolo.

Mi sono tradotto per meglio tradirmi. Perché la libertà di tradire non abbia dei limiti. Gens du silence è divenuto Non era per noi. Come raccontare l’emigrazione a dei lettori ( spettatori) residenti in Italia? Cambiare il titolo, il nome dei personaggi, le situazioni vissute da quest’ultimi, il tutto raccontando la stessa storia: l’impossibilità di vivere nel paese di origine, l’incontro con lo straniero, i sogni infranti, il disprezzo per gli umili e tutti questi silenzi: tra marito e moglie, tra padre e figli, tra la comunità di accoglienza e gli immigrati. Non avevo mai scritto in italiano. Sospettavo tuttavia che “ le parole della mia infanzia evocavano un mondo che le parole di qui non potevano afferrare”. Per la prima volta sentivo i personaggi parlare la loro lingua non la mia. Per la prima volta non ho cercato di spiegare le mie idee. I personaggi mi si sono imposti. Soprattutto Alberto: un personaggio in cerca d’autore. Io l’ascoltavo sognare una vita migliore, raccontare il dolore di lasciare sua moglie e sua figlia, prima di vederlo sprofondare nel degrado. Poi Giulia . Ella supplica suo marito di tornare prima che sia troppo tardi. Ma non si emigra impunemente. Sarà troppo tardi…subito.

Non era per noi è all’opposto di una traduzione letterale. Tuttavia non racconta cose diverse da Gens du silence . Ho tradotto il senso piuttosto che le parole. Un senso arricchito da anni di riflessione sulle due versioni, dalla convinzione che Alberto e Giulia fanno parte di una generazione sacrificata. “ Se l’emigrazione fosse una cosa buona, non la si sarebbe lasciata ai poveri”, pensano. I lettori (spettatori) italiani avranno un’immagine degli emigranti meno univoca, meno idealizzata, più vicina alla realtà. Una realtà né completamente di qui, né completamente di un altro luogo: tra due culture, due immaginari e almeno due lingue.

Non era per noi é divenuto Silences. Una ritraduzione che non esisterebbe senza la versione italiana in cui, per una volta tanto, vi è un adeguamento tra i miei personaggi e la loro lingua. Se la scrittura di Non era per noi mi ha permesso di riscoprire non solo il mio legame affettivo con la lingua italiana, ma il potere che questa esercita su di me, la scrittura di Silences ha dimostrato che, dietro al francese che io parlo e scrivo, c’è una lingua italiana che lo condiziona e lo nutre. E viceversa. Sarà che parlo, scrivo e traduco tra queste due lingue?



                                                                                                    Marco Micone

martedì 10 febbraio 2009

Testo originale di Marco Micone

ÉCRIRE  ET  TRADUIRE ENTRE DEUX LANGUES ET DEUX CULTURES


 


J’ai passé mon enfance dans le Sud rural de l’Italie colonisé et appauvri par le Nord industrialisé. Les invectives racistes adressées aux culs-terreux méridionaux avaient pour but de nous attribuer notre infériorité sociale et économique. J’ai longtemps eu honte de mon patois : ma langue maternelle. Je trouvais l’accent chuintant de la Padanie beaucoup plus beau que mon parler saccadé. Lorsque j’ai compris que ma situation linguistique était analogue à celle des francophones du Québec, je me suis porté solidaire de leur lutte. La défense du français s’est ainsi substituée à celle de mon patois.


 


 


J’ai longtemps eu peur des mots.


 


J’ai commencé par avoir peur de ne pas les comprendre, puis de ne pas en avoir suffisamment   avant de me les approprier, de les triturer, d’en inventer et d’en jouir jusqu’à les trahir.


La peur de ne pas les comprendre a commencé très tôt à l’école élémentaire. Je fus étonné qu’on ne m’y enseigne pas les mots que j’utilisais tous les jours d’autant plus que ceux qui l’avaient fréquentée ne parlaient pas différemment des autres. Dès le début de la deuxième année, le maître nous obligea à acheter un carnet noir dans lequel nous devions noter tous les mots de notre dialecte que nous utilisions en classe et pour lesquels nous devions trouver les équivalents italiens.  La tâche nous était apparue si ardue qu’après quelques semaines nous étions tous devenus aphasiques. Ce fut mon premier dictionnaire.  Je n’ai pas gardé ce premier carnet, mais j’ai gardé l’habitude  d’aligner des mots dans un cahier de même couleur.


À  la fin de l’élémentaire, je me suis retrouvé pensionnaire dans un petit séminaire, loin de chez moi, où la répression contre l’usage du vernaculaire était d’une rare efficacité.


  Dès le lever, un des prêtres surveillants partait à la chasse du premier fautif et lui remettait discrètement une clé que celui-ci s’empressait de cacher dans sa poche pour partir aussitôt à la recherche d’un autre transgresseur, et ainsi de suite jusqu’à l’heure du coucher. Le dernier détenteur de la clé utilisait celle-ci pour entrer dans une pièce et s’auto-punir en copiant deux pages du dictionnaire Garzanti.


Mais la peur fit place à la panique lorsque je me suis retrouvé, l’année suivante, dans une école française de Montréal. Le premier jour, je suis rentré à la maison avec une liste de mots que je devais apprendre à épeler. Un seul mot a occupé mon esprit tant il m’apparaissait étrange. J’ai répété des centaines de fois BÉ A OU CO OUP  croyant que c’était la bonne prononciation. Le lendemain, incapable de reconnaître le mot tel que prononcé par le professeur,  j’en ai voulu à mon père d’avoir émigré et à ma mère d’avoir cru que j’avais besoin de lui.  


 


J’ai longtemps eu peur aussi de ne pas avoir suffisamment de mots. Après avoir fréquenté une école française pendant deux ans, mes parents m’ont inscrit à une école secondaire anglaise. Les classes d’accueil n’existaient pas encore.   Je restais assis jour après jour dans la salle de classe, sans rien comprendre, attendant la fin des cours pour retrouver mes amis italiens au gymnase ou sur le terrain de jeu. J’ai attendu des semaines  avant de poser la première question après l’avoir répétée des dizaines de fois dans ma tête. Très tôt, j’ai eu le pressentiment que je n’arriverais jamais à maîtriser cette langue tant elle m’apparaissait différente de l’italien. À l’école française, j’avais rapidement saisi les correspondances entre le français et l’italien. Je reconnaissais facilement les racines communes et les ressemblances syntaxiques et grammaticales. J’avais l’impression qu’en apprenant le français je restais en terrain connu, que je puisais à la même source que celle de l’italien et qu’avec le temps je réussirais à le maîtriser convenablement,  tandis que l’apprentissage de l’anglais m’était apparu comme une tâche titanesque, insurmontable.  Je ne trouvais aucune logique ni à la syntaxe ni à l’orthographe et encore moins à la prononciation. Certains mots me sont apparus si étranges que non seulement je me souviens de la première fois que je les ai entendus en classe, mais je n’ai jamais oublié ceux qui les ont dits. Ainsi je peux encore citer les noms de mes camarades qui ont prononcé pour la première fois devant moi flabbergasted, extracurricular, spooky, etc. Il m’a fallu du temps pour comprendre que la raison principale pour laquelle je suis sorti de ce high school avec une connaissance approximative de l’anglais, ce n’était  pas tant à cause de sa complexité intrinsèque ( qui n’est pas plus grande que celle du français ou de l’italien), mais  en raison de la méthode et des conditions de son enseignement. Il eût été étonnant que je réussisse à maîtriser la langue de Shakespeare après quatre ans de high school  en ne l’entendant que dans la salle de classe (car je ne faisais que l’entendre), puisqu’à l’extérieur je parlais l’italien et le français seulement. La peur de ne pas avoir assez de mots me fera abandonner l’école anglaise.


C’est cette même peur qui m’incita à reprendre l’habitude d’en consigner dans un cahier de couleur noire dès que j’entrepris des études en (de) littérature française. Mon premier dictionnaire Larousse que je venais d’acheter était trop impersonnel. Il me fallait ma propre liste de mots que je glanais au fil de mes lectures éclectiques. J’étais à la recherche de termes rares que j’utiliserais éventuellement pour prouver que je m’étais affranchi de mon milieu  aphasique et inculte.  J’ai pris alors l’habitude de lire le dictionnaire et de noter les mots dignes de mon cahier noir. Lorsque j’ai décidé d’écrire des pièces de théâtre sur les immigrants italiens, j’ai découvert que ceux que je collectionnais ne m’étaient d’aucune utilité. Le problème que j’avais à résoudre était le suivant : comment faire parler, pour un public francophone, des immigrants d’origine italienne, de condition modeste, peu scolarisés et parlant rarement et très mal le français?  Je résolus d’utiliser une langue très simple mâtinée d’italien, pour les personnages adultes, et truffée d’anglais, pour les personnages jeunes. J’ai voulu ainsi évoquer, aussi bien dans  Gens du silence que dans Addolorata, la diversité culturelle de la société québécoise, mais aussi la confusion linguistique qui y régnait avant la Loi 101.  


Si j’ai commencé par écrire du théâtre, c’est à cause de mon insécurité par rapport au français… insécurité qui était due en grande partie à la situation babélienne dans laquelle j’avais vécu depuis mon adolescence.  J’avais beau collectionner des mots, je savais que l’écriture romanesque et la traduction littéraire demandent une connaissance approfondie de tous les aspects de la langue, sans oublier celle de la littérature.  C’est donc seulement après avoir publié de nombreux articles dans les journaux sur des sujets d’actualité et après avoir écrit quelques pièces de théâtre, que j’ai acquis l’assurance nécessaire pour écrire un récit et traduire des pièces du répertoire classique italien.


J’ai écrit du théâtre pour régler des comptes : contre ma communauté, contre l’autorité paternelle, contre le pouvoir... Je l’ai écrit souvent au mépris des exigences de l’art théâtral. C’est en écrivant Le figuier enchanté que j’ai éprouvé pleinement le plaisir de l’écriture : cette jouissance inexplicable de puiser dans la mémoire et l’imaginaire, d’inventer des personnages qui ne nous quitteront plus et grâce auxquels on ne sera plus seuls, d’imaginer ou de recréer des lieux qu’on habitera pour toujours, d’essayer d’atteindre la vérité, la mienne, qui est  un peu aussi celle des autres : la vérité des sentiments, ou celle qui fait que je suis, que nous sommes humains, et qui parfois est enfouie sous tant d’insincérité et de couardise. Mais sans le cahier noir le plaisir n’aurait pas été le même.  C’est dans ses pages que j’ai trouvé le mot abot avec lequel j’ai composé le titre d’un des chapitres, La femme aux abots. J’aimais le jeu de mots. J’aimais aussi, moi, l’immigrant, l’idée d’obliger le lecteur francophone à consulter le dictionnaire et à me donner raison après avoir cru que j’avais tort. J’ai répété le stratagème avec le mot exorde que beaucoup de lecteurs ont sans doute cru mal orthographié. Dans un livre traitant de l’émigration, on s’attend normalement à trouver le mot exode, alors qu’en ajoutant un  r  j’ai voulu indiquer que c’était le chapitre initial du livre. Les lecteurs de mon récit ont sûrement consulté le dictionnaire aussi pour éteules, lémure et quelques autres étrangetés. Quant à amigré, névasse et ménéfréghiste : le premier est un mot valise, le deuxième, névasse  (péjoratif pour neige, du latin nix nivis,  auquel j’ai ajouté le suffixe asse), un néologisme qui désigne la sloche ( je n’ai jamais compris pourquoi dans un pays de neige on n’ait pas forgé un terme qui ne soit ni un anglicisme ni une onomatopée), et le dernier, ménéfréghiste (je-m’en-foutiste), est un italianisme qui se veut un rappel de la contamination que subit le français québécois en présence des langues immigrantes.


Écrire dans un milieu cosmopolite et plurilingue, c’est écrire en tenant compte des autres cultures et des autres langues. Être plurilingue dans un milieu cosmopolite, c’est constater l’impossibilité pour une seule langue de traduire la réalité complexe qui nous entoure, mais c’est aussi être en situation de passage et d’échanges constants entre les langues. Serait-ce là, entre les langues qu’on saisit le mieux une réalité qui ne cesse de se transformer?  N’est-ce pas le propre de la traduction et du traducteur de se situer entre les langues?


 Pendant les années quatre-vingt-dix, j’ai traduit Pirandello,  Goldoni, Gozzi et Shakespeare. Chacune de ces traductions était une transformation du texte d’origine. Parmi les nombreuses répliques que j’ai ajoutées à  La Mégère apprivoisée, il y avait celle-ci : « Petrucchio, pourquoi êtes-vous si certain de pouvoir séduire Catarina? – Parce que, répond-il, si j’étais une femme, c’est un homme comme moi que j’épouserais. »   Pendant que la salle du TNM était écroulée de rire, une spectatrice assise à côté de moi s’est écriée : ça, c’est du Shakespeare!


   L’année suivante, lors de la présentation de mon adaptation de La Serva amorosa, de Goldoni, au même théâtre, c’est Markita Boies, admirable Coraline, qui était assise à côté de moi dans un studio de Radio-Canada. Au journaliste qui lui demandait pourquoi elle aimait tant Goldoni, elle répondit que c’était pour des répliques comme celle-ci : La noblesse de votre âme vaut bien le hasard de ma naissance.  J’ai alors imaginé un spectateur s’exclamant le soir de la première : ça, c’est du Goldoni! C’est ce que j’appelle le cheval de Troie de la traduction.


   On ne traduit pas un texte de théâtre comme on traduit de la poésie ou un roman. Pour être représentable sur scène, une traduction théâtrale doit être le fruit d’un travail dramaturgique et non seulement linguistique. Le traducteur de théâtre doit reconstituer la totalité artistique, tenir compte des exigences de la scène et du jeu des comédiens. Il en est le premier metteur en scène. En tant qu’interprète du texte d’origine, cependant, il partage ce rôle avec les artisans de la scène qui deviennent tous des interprètes du texte à traduire et à représenter, des passeurs d’une culture qui ne sera plus la même à l’arrivée. En même temps qu’elle est un outil critique, la traduction en est un aussi de connaissance. Elle constitue en outre un déplacement qui permet non seulement un point de vue autre sur l’œuvre à traduire, mais aussi un regard entre, comme dans tra-dire : dire entre (tra = entre en italien) : entre les mots, entre les langues, entre les cultures, entre les imaginaires. Traduction comme tension donc, sans oublier celle jamais réglée entre l’auteur d’origine et le traducteur.


 Toute traduction est une adaptation. Une traduction d’une littéralité ou fidélité absolue n’existe pas. Il faudrait pour cela une correspondance parfaite entre deux langues,  deux cultures, deux imaginaires. Entre aussi la sensibilité de l’auteur d’origine et celle du traducteur.  Dans le cas d’un texte de théâtre classique, le traducteur est avant tout un lecteur privilégié qui ne doit pas hésiter à se l’approprier afin de le rendre pertinent à un spectateur d’aujourd’hui. « Croire qu’un texte est définitif relève de la religion ou… de la fatigue», écrit Berman. Ce qui importe dans une traduction, c’est moins sa valeur par rapport à l’œuvre originale que sa nouvelle cohérence. Il ne faut pas non plus se laisser terroriser par les classiques. Ceux-ci doivent nous servir… à comprendre le passé et le présent. D’où la liberté, sinon l’obligation,  d’adapter, de transgresser jusqu’à en faire un Cheval de Troie d’idées dont la valeur est décuplée du simple fait qu’elles sont attribuées à un auteur classique. C’est ce que j’ai fait avec mes adaptations.  Traduire donc, comme dans tradire : trahir. Un traducteur servile est un passeur de morts, dirait Meschonnic. 


 La traduction doit aussi nous rapprocher de l’ailleurs et nous éloigner de l’ici afin de relativiser  nos modes de vie et notre vision du monde. Elle doit ensuite nous faire osciller entre les deux, dans une quête sans fin d’un équilibre improbable. 


À la fin des années soixante-dix, j’ai écrit Gens du silence. Je voulais donner la parole aux sans voix, à ceux dont la langue était celle du silence et de l’impuissance. Je voulais que les spectateurs de n’importe quelle origine puissent se reconnaître dans ces personnages. Il fallait donc qu’ils s’expriment en français pour être compris par le plus grand nombre, un français populaire d’une grande simplicité, mais évitant le joual, puisque celui-ci était l’apanage des francophones. Quelques mots italiens émaillant les dialogues rappelaient qu’Antonio, Anna et Annunziata parlaient une langue qui n’était pas la leur.  Les personnages la parlaient comme s’ils s’exprimaient en italien, car le but était de dire les rêves et les tourments de ces déracinés sans les folkloriser. La désorientation individuelle et collective était incarnée par Mario et son groupe d’amis qui mélangeaient l’italien, le français et l’anglais. Une langue entre les langues.  Un sabir à l’image de la société d’avant la loi 101. En récrivant Gens du silence, vingt-cinq ans plus tard, ( premièrement en italien, puis en français) dans un Québec où le français est devenu la langue commune pour la grande majorité de la population, j’ai tenu à ce que ces personnages aux noms italiens s’expriment  comme des francophones pour que cette langue soit à la fois un modèle et un symbole.


 Je me suis traduit pour mieux me tradire.  Pour que la liberté de trahir n’ait pas de limites. Gens du silence est devenue Non era per noi. Comment raconter l’émigration à des lecteurs (spectateurs) vivant en Italie? Changer le titre, le nom des personnages, les situations vécues par ces derniers, tout en disant la même chose : l’impossibilité de vivre dans le pays d’origine, la rencontre de l’étranger, les rêves brisés, le mépris des humbles et tous ces silences : entre mari et femme, entre père et enfants, entre la communauté d’accueil et les immigrants.  Je n’avais jamais écrit en italien. Je me doutais toutefois que « les mots de mon enfance évoquaient un monde que les mots d’ici ne peuvent saisir».  Pour la première fois, j’entendais les personnages parler leur langue et non la mienne. Pour la première fois, je n’ai pas cherché à illustrer mes idées. Des personnages se sont imposés à moi. Surtout Alberto : un personnage en quête d’auteur. Je l’entendais rêver d’une vie meilleure, dire le chagrin de quitter sa femme et sa fille, avant de le voir sombrer dans une lente déchéance. Puis, Giulia. Elle supplie son mari de rentrer avant qu’il ne soit trop tard. Mais on n’émigre pas impunément. Il sera trop tard… trop tôt.


 Non era per noi est aux antipodes d’une traduction littérale.  Pourtant elle ne dit pas autre chose que ce que dit Gens du silence. J’ai traduit le sens plutôt que les mots. Un sens enrichi par des années de réflexion entre les deux versions, par la conviction qu’Alberto et Giulia font partie d’une génération sacrifiée. «Si l’émigration était une bonne chose, on ne l’aurait pas laissée aux pauvres», pensent-ils. Les lecteurs (spectateurs) italiens auront une image des émigrants moins univoque, moins idéalisée, plus conforme à la réalité. Une réalité ni tout à fait d’ici ni tout à fait d’ailleurs : entre deux cultures, deux imaginaires et au moins deux langues.


Non era per noi est devenue Silences.  Une retraduction qui n’existerait pas sans la version italienne où, pour une rare fois, il y a adéquation entre  mes personnages et leur langue. Si l’écriture de  Non era per noi  m’a permis  de redécouvrir  non seulement mon lien affectif avec la langue italienne, mais le pouvoir que celle-ci exerce sur moi,  l’écriture de Silences  a fait la preuve que, derrière le français que je parle et j’écris, il y a une langue italienne qui le conditionne et le nourrit. Et vice versa. Serait-ce que je parle,  écris et  traduis entre ces deux langues?


 


                                                                                    Marco Micone

lunedì 2 febbraio 2009

emblema scritturaQual è stato il motivo, la lettura, l’incontro, che ti ha fatto capire, per la prima volta, che avresti deciso di dedicarti alla scrittura?


Questa è la domanda che Molise d’Autore ha posto agli scrittori. A prima vista poteva sembrare una domanda scontata, banale, ma le loro risposte non lo sono state. Dal taglio telegrafico a quello articolato essi ci svelano le loro prime letture, ma anche una parte importante del loro vissuto e della loro personalità.  (Barbara Bertolini)


 


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Ecco le risposte di 9 autori così come ci sono pervenute:


 


Carla Maria Russo


Non mi sono mai posta l'obiettivo di diventare scrittrice. Non era nei miei programmi. Sono sempre stata e resto una appassionata lettrice.


Alla scrittura sono arrivata coltivando la mia passione per la ricerca storica, nel corso della quale mi sono imbattuta in storie bellissime e struggenti, che mi spiaceva lasciar cadere di nuovo nell'oblio. Mi sono così ritrovata a domandarmi se non volessi provare a raccontarle agli altri.


Tuttavia la prima volta in cui mi sono davvero cimentata con la scrittura è stato nell'estate del 1998. Mia figlia Gaia, che aveva allora dodici anni, mi ha domandato di scrivere un romanzo adatto a lei. Così è nato il mio primo libro: BARTOLOMEO ALLA PRIMA CROCIATA.


A Gaia è piaciuto tanto che mi ha convinto a vincere l'imbarazzo e a presentarlo a una casa editrice.


Dopo alcuni mesi di attesa, ho saputo che il libro era stato accettato. E così è cominciata l'avventura...


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Francescopaolo Tanzj


La lettura a circa 16 anni (dopo una scorpacciata di Salgari, Verne e Dumas) di:


- I fratelli Karamazov di Dostojevschij


- Avere e non avere di Hemingway


- Howl di Allen Ginsberg


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Giuseppe Tabasso


Non esiste una prima volta ma una catena di volte e non esiste propensione alla scrittura senza incontri con la lettura. Per me l’incontro iniziale avvenne, anni ’40, con due scrittori: Conrad (Martin Eden) e soprattutto col dimenticato Giovanni Papini di cui scoprii su una bancarella il suo “Crepuscolo dei filosofi”. Di lui lessi poi quasi tutto, affascinato da uno stile irruente, talvolta iconoclasta. Per i giovani è fondamentale innamorarsi di uno scrittore, di assorbirne lo stile, quasi di cannibalizzarlo. Poi però bisogna liberarsene, specie per chi  – ed è il mio caso    decide di dedicarsi al giornalismo. La mia teoria, infatti, è che il destino sociale della scrittura giornalistica comporta fatalmente un suicidio stilistico e, dunque, che il buon reporter deve emendarsi dalle tentazioni della letterarietà. Ma è certo la letteratura la base sulla quale un giornalista può costruire la sua capacità di rappresentazione della realtà quotidiana. 


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Rita Frattolillo


Sono essenzialmente due i meccanismi che mettono in moto la mia voglia di scrivere. Il primo: quando mi preme dire qualcosa spinta da un impulso incontenibile (per esempio sotto l'impressione di un quadro appena visto o di una lettura appena fatta, o di fronte ad un avvenimento che mi fa reagire), allora scrivo di getto, difficilmente riesco a reprimermi.


Secondo: a volte, specie di notte, il cervello si mette in azione, e comincia a scavare; scende in miniera, e spesso risale con qualcosa, arriva un'intuizione, una storia da dire. Allora prendo la penna, parto a vado. Quando scrivo, mi affascina particolarmente la creazione, che mi dà un senso  di libertà totale, e la possibilità di lavorare sulle parole. Sì, perché dare i nomi alle cose significa avere coraggio, ribellarsi agli stereotipi, alle strutture che incatenano la lingua. Se è vero che le storie sono state già tutte narrate, è  infatti il "modo" che cambia, e che distingue uno scrittore dall'altro. Egli mette assieme due parole che erano separate, e dal momento che lo fa, la realtà che gli era estranea diventa sua, e nello stesso tempo suscita emozione in chi legge. Penso, per concludere, che dovremmo distinguere lo "scrivente" dallo "scrittore" vero e proprio, che è, a mio avviso, merce piuttosto rara. 


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Simonetta Tassinari


Mi afferrò  il desiderio di scrivere non appena ebbi terminato di leggere de "L'isola dei delfini blu", il mio primo libro. Dovevo essere all'incirca in seconda elementare; ne conservo ancora la copia, che provvidi, già all'epoca, a sottolineare  e a riempire di appunti, perché avrei voluto che la storia avesse uno sviluppo diverso.


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Nino Ricci


La prima volta che ho pensato di diventare uno scrittore avevo undici o dodici anni. All'epoca ero un divoratore di libri, e a un certo punto mi venne in mente che da qualche parte ci doveva essere qualcuno che scriveva tutti quei libri, e che un giorno avrei potuto scriverne uno anch'io. Avevo già mostrato una propensione per la scrittura e anzi ero noto tra i miei compagni di scuola per le mie lunghe storie. Scrissi il primo romanzo in quinta, riempiendo quasi un quaderno e mezzo. Era la storia di una grossa bicicletta tuttofare che fungeva anche da navicella spaziale e da macchina per viaggiare nel tempo. Gran parte della trama era presa dagli spettacoli in TV che allora seguivo (per esempio, una serie dal titolo La galleria del tempo) come pure da una popolare serie di film e libri di Disney che parlavano di una Maggiolino Volkswagen chiamata Herbie. Fu solo quando ebbi vent'anni, comunque, che dopo parecchi tentativi falliti realmente feci uno sforzo concreto per scrivere seriamente. Mi iscrissi a un master di scrittura creativa. Il suo merito principale fu quello di fornirmi delle condizioni ambientali strutturate per sviluppare la disciplina di scrivere con un ritmo giornaliero. Fu grazie a quell'esperienza che scrissi il mio primo romanzo, Vite dei santi.  (Traduzione di Gabriella Iacobucci)


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Antonio D’Alfonso


La scrittura è stato il mio segreto. Un Caro Diario intellettuale. Era nel 1968 quando tutto è incominciato per me. Avevo 15 anni, credo, meno, quando ho deciso di servirmi della stilografica d’oro che mia nonna Lucia di Guglionesi, tramite i miei genitori, mi aveva dato come regalo-souvenir del Molise. Il diario non è durato troppo a lungo, subito l’intimo si è trasformato in poesie, spesso in due lingue: in francese e in inglese. Ma c’è voluto molto tempo, quasi cinque anni, prima che io abbia avuto il desiderio di pubblicare le cose che scrivevo.


Perché pubblicare?, questa è la vera domanda da fare. Scrivere, tutti scrivono. Però la cosa che mi sembra diversa tra me e l’altro, la vera cosa che mi separa dall’altro è la pubblicazione. Perché offrire agli altri quello che hai scritto per te stesso nel privato della tua stanza? Certo c’è un po’, forse anche un po’ molto, di vanità. Ma la vanità è la cosa più anti-letteratura che ci sia. La vanità ti aiuta a muovere i primi anni, ma presto, la vanità sparisce. Non c’è abbastanza spazio nella letteratura per la scrittura e per la vanità. La prima cosa che parte è proprio la cosa che ti ha spinto verso l’altro, il lettore. Una volta che il terzo libro è stato pubblicato, non rimane più niente della tua vanità. L’unica cosa che esce tra te e l’altro è questa parola delicata, fragile. chi è questo altro?


Quest’altro è la società con la quale vuoi comunicare con queste poche parole che rubi dai libri degli altri… Scrivere diventa subito un modo di parlare e di discutere con gli altri.


Ritorniamo velocemente al punto di partenza: ti rendi conto che scrivere non è parlare con te stesso, ma parlare con l’altro. È la parola che scivola fuori da te e abbraccia l’altro. Scrivere è stato per me il modo migliore di parlare con il mio vicino… Scrivendo ho imparato a parlare dal vivo. Prima di scrivere non sapevo parlare, barbugliavo. Alla fine mi rendo conto che non è mai esistito nessun segreto, sempre c’è stato il desiderio di essere amato dall’altro. Scrivere mi ha permesso di esistere come cittadino, di qui di là dal mondo.


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Pietro  Corsi
Mi sono interessato alla lettura quando, in prima media, al Caradonio-Di Blasio di  Casacalenda, vinsi un concorsino indetto dalla professoressa (Sisetta Mancini) che riguardava, se ben ricordo, un tema in italiano. Per premio ricevetti un libro per me prezioso: I tre moschettieri!
Poi però successe qualcosa. Andai a frequentare la seconda media alla statale di  Larino. Il professore era Paolo (Paoluccio) Minni. Non credo che avesse simpatia per gli alunni della vicina ma Casacalenda, e certamente nutriva una spiccata antipatia per me. O almeno, così mi sembrava. Io ero un asino in latino, perché ero arrivato mentre loro, a Larino, erano molto più avanti di noialtri di Casacalenda. Non sono mai riuscito a raggiungerli, anzi facevo fatica a rimanere... indietro! Il professor Minni pensò bene di bocciarmi in latino con uno zero spaccato. Questo mi andava bene, lo sapevo. Ma siccome le sue materie erano anche italiano, storia e geografia, per buona misura decise di aggiungerci anche quelle. Ed anche se (a detta degli altri alunni), io potevo certamente essere considerato il migliore della classe in italiano e, forse, anche storia.
Questo incidente causò il mio abbandono della scuola. Decisi, cioè, che la scuola non faceva per me. O che io non facessi per la scuola. Insomma, oggi posso riconoscerlo, ero incazzato e le incazzature giovanili sono sempre imprevedibili e pericolose.
La preside, Vitiello, venuta a conoscenza dell'incidente, si preoccupò di farmi raggiungere dalla sua preghiera di presentarmi a settembre, per farmi giustizia. Non lo feci, non mi preparai e non mi presentai. Mi rinchiusi, invece, nella sede del circolo cattolico giovanile per tutta l'estate, e mi lessi tutti i libri della sua ben attrezzata biblioteca riclassificandoli, secondo un mio arbitrario giudizio, in un apposito inventario "ragionato".
Ecco, questo maturò in me l'interesse per la lettura. Che continuò anche quando, qualche anno dopo, cominciai a lavorare presso lo studio del notaio Lalli, nel Palazzo Ducale. Passavano, per il paese, rappresentanti delle più grandi case editrici di quei giorni, Mondadori, Einaudi, Rizzoli, per presentare le loro novità editoriali presso la Libreria De Magistris (ora defunta). Io, che al contrario di altri giovanotti guadagnavo già qualche soldino, ero il miglior cliente. Ho ancora, nella mia casa di Casacalenda, molte di queste edizioni anni Cinquanta, ora bruciate dalla polvere. In quei giorni, chi voleva leggere e non poteva comprarle libri, li prendeva in prestito da Pietro Corsi. E quando andai via, li prendeva in prestito, dalla mia piccola libreria, avvicinando mia sorella Nuccia. C'è ancora oggi una signora romana, dottoressa, che giura, ogni volta che la incontro, di essere diventata una avida lettrice grazie alla mia collezione di libri. E, bontà sua, mi ringrazia ma io, per la verità, non mi ricordo neanche: erano in tanti, in quei giorni, ad avvicinarsi alla mia fonte libraria. 
Mentre lavoravo nello studio del notaio Lalli scoprii, sulla sua scrivania, un libro intitolato "Signora Ava", scritto da un guardiese, Francesco Jovine. Anche il Lalli era guardiese e, si diceva, era forse imparentato con Jovine. Cominciai a leggere anche quel libro, e presto me ne innamorai. Forse anche perché parlava di cose di casa.
E tuttavia, la passione per la scrittura maturò soltanto anni dopo, quando mi trasferii a Roma, anche se, mentre ero ancora in Molise, scrivevo articoletti "dalla provincia" per le pagine regionali di Paese Sera, Il Tempo, Il Messaggero. 
A Roma ebbi la fortuna d’ incontrarmi con Giose Rimanelli e, tramite il mio studio di traduzioni e copisteria, con il paroliere napoletano Michele Galdieri. Con il Galdieri, cominciai a collaborare scrivendo programmi radiofonici. Era uomo di grande umanità, come ogni buon napoletano che si rispetti. Non lavorava mai senza che io fossi presente (infatti, smise di lavorare quando io lasciai Roma!). Gli dedicavo la tarda sera e le ore notturne, perché di giorno avevo i miei altri impegni. Questi includevano, anche, il mio aiuto all'amico fraterno Giose Rimanelli, in quei giorni alle prese con la stesura di Il mestiere del furbo, che aveva fretta di consegnare alle stampe. Era un libro complesso, cambiava di giorno in giorno e confessava l'inconfessabile. Io glielo battevo a macchina perché lui era troppo incazzato con il contenuto per concentrarsi anche sulla tastiera della macchina da scrivere. Solo dopo riuscii a capire il perché: quel perché che è, oggi, storia (anche se non ufficialmente riconosciuta) della letteratura italiana di quei giorni.
Ecco, con questo bagaglio di esperienze alle spalle, qualche anno dopo arrivai in Canada, a Montreal. Siamo alla fine della primavera del 1959. Ricevo un'offerta di lavoro presso il settimanale in lingua italiana “Il Cittadino Canadese”. Su quel giornale comincio a pubblicare anche (così, tanto per riempire le sedici pagine settimanali) qualche "racconto". Primo fra tutti, Onofrio Annibalini: emigrante, che maturerà, poi, nel mio primo libro, La Giobba.
Dopo” Il Cittadino” e la mia esperienza canadese, presi altre strade. Mai però dimenticando che scrivere era un mio dovere. Devo però a questo punto ammettere che se il mio bagaglio di avventure ha svegliato, in me, il mestiere di scrivere, di "narrare", non posso essere considerato un narratore di stampo intellettuale. Mi considero appena un... artigiano della narrazione. E questo però, mi va bene!  


 


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Carole David Fioramore


Ragioni per scrivere


Fin dall’inizio della scuola elementare ero molto brava in francese. Mi sentivo valorizzata. Le suore apprezzavano la mia immaginazione e la mia padronanza della lingua sia orale che scritta. Adolescente, adoravo il teatro e pensavo diventare attrice. Ho dovuto rinunciare alla pratica di questa disciplina. La mia timidezza e la mancanza di fiducia in me stessa non si accordavano  con  il palcoscenico.


Frequentavo una scuola privata la cui clientela era composta quasi esclusivamente da ragazze della piccola e grande borghesia. Adolescenti bionde che praticavano lo sci, il tennis e l’equitazione contrariamente a me, il cui unico svago era rappresentato dalla lettura. E’ in questo periodo che mi sono sentita marginalizzata, esclusa. Non volevo appartenere al loro mondo né a quello dei miei genitori. A distanza di tempo, credo che questa esclusione spiega in buona parte la mia entrata  nel mondo della letteratura.


Alla fine della scuola secondaria, ho deciso di iscrivermi a lettere nel mio collegio. Mia madre non approvava questa scelta; voleva che diventassi medico, avvocato o farmacista. Mia nonna materna (nata in Italia) aveva anche consigliato a mio padre di non sperperare i suoi soldi pagandomi degli studi universitari. Ero solo una ragazza dopotutto.


 


Incontri


Dopo gli studi universitari in letteratura, il mio incontro con un giornalista sportivo (nato in Italia, emigrato prima in Francia e poi nel Québec) è stato un momento determinante nella mia vita. Ho potuto da un lato riannodare pienamente con le mie origini italiane e dall’altro costeggiare un mondo che mi era fino a quel momento sconosciuto. Certo, ci sono stati anche dei professori, ma ben pochi. Ho avuto la fortuna di lavorare in una libreria del Quartiere latino a Montreal frequentato dai letterati emergenti dell’epoca. Editori, poeti, attori vi si davano appuntamento. E’ in questo posto che ho incontrato il mio editore, Hébert che continua sempre a sostenermi nel mio impegno nella scrittura.


 


Le letture


I primi incontri poetici sono stati determinanti: Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. La lettura di Antonin Artaud è stata un pugno nello stomaco. Poi gli scrittori americani della controcultura: Brautigan, Kerouac, Ginsberg. La cantante e poetessa Patti Smith è stata una rivelazione. C’è stata Marguerite Duras; tutte le ragazze della mia generazione sognavano di scrivere come lei. I miei anni di studi sono stati segnati  dai classici francesi che ho rigettato, in seguito, per sostituirli con gli scrittori americani marginali. La mia identità di scrittrice è il risultato di questo meticciato.


(Traduzione di Barbara Bertolini)


 


Versione originale in francese della risposta di Carole David Fioramore


 


Des raisons pour écrire


Dès l’école primaire, je réussissais bien en français. J’y trouvais une certaine valorisation. Les religieuses appréciaient mon imagination et ma maîtrise de langue autant orale qu’écrite.





 


Adolescente, j’adorais le théâtre et je pensais même devenir comédienne. J’ai dû renoncer à la pratique de cette discipline. Ma timidité et le manque de confiance en moi ne faisaient pas bon ménage avec le fait de devoir monter sur les planches.


Je fréquentais une école privée dont la clientèle était composée presque exclusivement de filles de  la petite et de la grande bourgeoisie. Des jeunes filles blondes qui pratiquaient le ski, le tennis et l’équitation contrairement à moi dont le seul loisir était la lecture. C’est à cette époque que j’ai commencé à me sentir marginale et exclue. Je ne voulais pas appartenir à leur monde ni à celui de mes parents. Avec le recul, je crois que cette mise à l’écart explique en bonne partie mon entrée en littérature.


À la fin de mon secondaire, j’ai décidé de m’inscrire en lettres dans un collège. Ma mère n’approuvait pas ce choix ; elle voulait que je devienne médecin, avocate ou pharmacienne. Ma grand-mère maternelle (née en Italie) avait même conseillé à mon père de ne pas gaspiller son argent en me payant des études universitaires. Je n’étais qu’une fille après tout.


Des rencontres


Après mes études universitaires en littérature, ma rencontre avec un journaliste sportif  (né en Italie, émigré d’abord en France ensuite au Québec)  a été un moment déterminant dans ma vie. J’ai pu d’une part renouer pleinement avec mes origines italiennes et d’autre part côtoyer un monde qui m’était jusque là inconnu. Certes, il y eu aussi des professeurs, mais il sont peu nombreux. J’ai eu la chance de travailler dans une librairie du Quartier latin à Montréal fréquenté par le milieu littéraire émergent de l’époque. Éditeurs, poètes, comédiens s’y donnaient rendez-vous. C’est à cet endroit que j’ai rencontré mon éditeur, François Hébert qui continue toujours de me soutenir dans ma démarche d’écriture.


Des lectures


Les premières rencontres poétiques ont été déterminantes : Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. La lecture d’Antonin Artaud a été un coup de poing. Puis les écrivains américains de la contre- culture : Brautigan, Kerouac, Ginsberg. La chanteuse et poète Patti Smith a été une révélation. Il y a eu Marguerite Duras ; toutes les jeunes femmes de ma génération rêvaient d’écrire comme elle.  Mes années d’études ont été jalonnées par les classiques français que j’ai rejetés, par la suite, pour leur substituer les écrivains américains marginaux. Mon identité d’écrivain est le résultat de ce métissage.


 


 


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