Bruno ALETTA
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Luigi Incoronato: Tra i gradini inquieti
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Negli anni del dopoguerra, nell'intensa esperienza del neorealismo meridionale Napoli, con l'appassionato impegno dei suoi intellettuali più impegnati, diede un contributo decisivo alla rappresentazione di una realtà disgregata e prostrata dagli esiti della guerra.
Le opere di questi scrittori partenopei di nascita o di adozione furono il punto di partenza di una prospettiva di lotta e di cambiamento, per una letteratura di denuncia e di militanza politica. Con stili e intenti talvolta diversi, scrittori come Domenico Rea e Luigi Compagnone, e per certi versi Michele Prisco e Mario Pomilio, parteciparono a quella narrazione collettiva, "a più voci", delle miserie di una città assunta a simbolo di una società da trasformare. Luigi Incoronato fu tra questi il neorealista più ortodosso, e il romanzo "Scala a San Potito" l'opera meno mediata e più aspra di denunzia delle miserie prive di speranze di un gruppo di senza tetto napoletani.
"Scala a San Potito", pubblicato nel 1950, fu il capolavoro di un'anima inquieta, Luigi Incoronato, nato a Montreal nel 1920 da emigrati, vissuto a Napoli, cronista di Paese Sera e morto suicida nel 1967. La tensione dell'opera di Incoronato è tutta orientata alla denunzia di una realtà da mettere a nudo. La vicenda del romanzo "Scala a San Potito" pubblicato nel 1950, ruota intorno ad un giornalista che per curiosità o perché attratto da una forza misteriosa, frequenta con insistenza un luogo di miseria e disperazione, quella scala a San Potito sui cui pianerottoli trovano alloggio diseredati senza casa né lavoro, talvolta alla ricerca di un'identità sociale ed economica, talvolta senza speranza e annichiliti dalla rassegnazione. Quella scala diviene sempre più il luogo degli affetti del protagonista, e i suoi tentativi di solidarizzare e di condividere le storie e sentimenti di quei disgraziati lo assorbono a tal punto che ben presto si sentirà non già osservatore esterno, ma uno di loro.
Il neorealismo in Italia visse momenti felici quando il peso degli eventi misero in sospensione il viaggio dello spirito novecentesco all'interno dell'uomo, all'interno dei linguaggi e delle forme espressive. Il romanzo filosofico e psicologico, l'introspezione e il flusso dei pensieri e le sperimentazioni espressive che caratterizzano gran parte della letteratura del'900, confinano l'esterno, la storia, l'altro da sé, a sfondo e contesto dei sentieri letterari. Ma tra gli anni '40 e gli anni ‘50 la realtà fu troppo ingombrante per raccontare le storie delle anime perché quelle anime erano troppo stritolate, forse annientate dalla realtà. La guerra, la lotta partigiana e il dopoguerra generarono una letteratura che non poté non immergersi in toto in una realtà essa stessa metafora di un viaggio spirituale senza ragione e senza meta.
Il neorealismo fu vera arte? Calvino giustamente affermò che non di corrente letteraria si trattava "il neorealismo non fu una scuola, ma un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, specialmente delle Italie fino allora più sconosciute dalla letteratura."
L'esigenza di rappresentare con crudezza la realtà diveniva atto politico e militante e questa presunta limitazione del dato estetico generò infiniti dibattiti che appassionarono i grandi intellettuali italiani del dopoguerra. La lotta partigiana e le miserie del dopoguerra dettero luogo a due filoni speculari del neorealismo: al dramma delle giovani ed eroiche vite spezzate nelle montagne della libertà, geograficamente e culturalmente radicate nel nord Italia fece eco e risonanza della realtà una narrazione delle miserie di una parte del Paese colpita al cuore prima ancora di sorgere, quel Sud Italia attanagliato dalla fame e dalla disperazione, punto di partenza per uno scatto di risveglio politico e di anelito di giustizia sociale. Scrive Walter Pedullà che il neorealismo visse due fasi ben definite "... dal 1945 al 1950 la narrativa è settentrionale come la maggior parte della guerra partigiana, mentre invece è meridionale la narrativa che dal 1950 al 1955 va a combattere dove più drammatico è il ritardo sociale (da Tommaso Fiore a Carlo Levi, da Rea a Jovine, da Brancati a Sciascia, da La Cava a Bonaviri, da Bernari a Incoronato, da Prisco a Compagnone, da De Jaco a Palumbo, da Seminara a Strati, da Pomilio a Pietro Buttitta)."
Napoli fu teatro privilegiato di narrazione e in quegli anni difficili le sue miserie non furono circoscritte al tragico quadro di una campagna affamata e tagliata fuori da ogni progresso rappresentata dal romanzo simbolo "Cristo si è fermato ad Eboli", ma testimoniarono una disperazione "metropolitana" dove i senza tetto non avevano dimore in squallide stalle ma sui gradini di una scala al centro della città.
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