lunedì 26 gennaio 2009

Estratto da "Una manciata di miglio

Sabino DAcunto


Una manciata di miglio e altri racconti


Editrice Lampo, 1988


 


(Testo e domande  proposti da Rita Frattolillo)


 


p.23


La Maestrina Vandra


 


La scena si ripeteva ogni lunedì. Alle prime case del villaggio, poco più in là del ponte sul fiume, la ragazza scendeva dalla corriera e, impacciata a tener nelle mani la valigetta, il cappottino, la borsetta e qualche libro, entrava di filato nel piccolo ufficio postale mentre la corriera riprendeva la sua corsa.


Era maestrina di Vandra. Me lo disse qualcuno commentando la vita disagiata di tante giovani maestre costrette a raggiungere borgate talvolta sperdute fra i monti e lontane da casa.


Ogni lunedì, infatti, la maestrina scendeva dal treno che da Campobasso la portava a Isernia e qui prendeva la mia stessa corriera per raggiungere la sua scuola. Un tran-tran cui non era possibile sottrarsi se voleva passare la domenica in famiglia.


 


p. 24


            Un lunedì la maestrina di Vandra non si presentò alla partenza della corriera a Isernia. Né più la vidi nei lunedì successivi. Pensai che fosse malata. Passarono così tre settimane e della mestrina non si seppe più nulla. Certamente, pensai, era stata trasferita altrove.


 


            Il ricordo della giovane insegnante era, intanto, sempre vivo in me. Un lunedì piovoso e freddo, costretto a fermarmi al villaggio per un guasto alla traballante corriera, sentii improvviso e insopprimibile il desiderio di vedere la scuola dove avevo immaginato tante volte la mia maestrina far lezione ai suoi piccoli allievi. Chiesi ad una donnetta di indicarmi la scuola. Quella, dapprima mi squadrò ben bene da cima a fondo, poi con un improvviso e largo sorriso mi disse: “Oh, finalmente, siete arrivato! Sono venti giorni che la maestra vi attende!”


p.25    […]In cima alla scala si apriva una porta. La donna la raggiunse svelta e gridò: “Signora maestra, signora maestra, è arrivato l’ingegnere!”


            “Un momento… io non sono…”. Ma chi ti ascoltava? Al richiamo della donna apparve sull’uscio una signora dal volto tondo e grassoccio, la maestra certamente, la quale mi accolse con un “Oh!” prolungato e stentoreo che suonava meraviglia e rimprovero insieme.


            […]Capii subito che quel vulcano di donna era la nuova maestra di Vandra la quale attendeva la visita, o meglio un sopralluogo, di un tecnico del Genio Civile di Isernia chi sa mai quante volte sollecitato per i restauri necessari alla scuola. E mi fu anche abbastanza chiaro che le due donne, vedendo uno sconosciuto che cercava della scuola, erano cadute nell’equivoco.


p.26    […]Seguii così senza pensarci due volte la maestra che mi introdusse in uno stanzone buio, freddo, umido fino a mostrare le pareti lucide d’acqua. Qui, pensai, aveva insegnato la mia maestrina… Ed io che avevo immaginato una piccola scuola ridente, piena di sole.


            “C’è tutto da rifare qui!”, tuonò la maestra. “Non so proprio come abbia fatto a resistere la giovane collega che mi ha preceduta in questa topaia!”


            “Ah!”, feci inavvertitamente. “Non c’è più quella signorina, vero?...”


            “Si è sposata ed ha lasciato l’insegnamento, beata lei!”, rispose sparendo per un attimo nel vano accanto richiamata dal baccano infernale degli alunni.


[…]Avevo finalmente saputo il motivo per il quale la maestrina non si era più vista sulla sgangherata corriera. Si era dunque sposata. Non saprei davvero dire se quella notizia mi arrecasse più sorpresa o disappunto. Forse entrambe le cose. La  maestra, intanto, ritornata dopo aver sedato il clamore degli alunni, mi invitò a seguirla nell’altro vano. Appena entrai gli scolaretti si alzarono in piedi e questo mi mise in un evidente imbarazzo. “Comodi, comodi”, mi affrettai a dire, ma solo  ad un perentorio ed energico “Seduti!” della signora quelli ubbidirono.


 


***°°°***

Domande su Sabino D'Acunto

DOMANDE PER VOI su Sabino D’Acunto:


 


1. Dov’è nato Sabino D’Acunto?


2. Ha scritto anche poesie? Se sì, qualche titolo?


3. Si è occupato di teatro?


4. Ha vinto qualche premio?


5. Si è occupato di politica?


6. E’ vero che da piccolo ha modificato il “Padre nostro”?

martedì 20 gennaio 2009

Dal testo di Rimanelli


OSSERVAZIONI SULLE LINGUE IN QUÉBEC CANADA



 


 Josée Di Tomaso


 


Secondo la legge quebecchese qualsiasi immigrante che arriva nella provincia di Québec deve imparare la lingua francese riconosciuta come sola lingua ufficiale dal 1977.


 


Il “Mile-End” era un quartiere all’ovest di Montreal che raggruppava una comunità italiana concentrata. All’inizio dello scorso secolo, l’inglese era la lingua predominante d’insegnamento e di lavoro riconosciuta dai quebecchesi. Per ottenere un lavoro migliore ed assicurarsi un maggior successo per l’avvenire si doveva assolutamente parlare in inglese. Certo, i primi immigranti che arrivarono in Québec, avevano la scelta di parlare sia l’inglese sia il francese. Il Québec era la sola provincia del Canada ad essere bilingue. Comunque l’immigrante non appena arrivato e senza risorse  finanziarie, doveva lavorare, e di conseguenza la lingua adottata era l’inglese.


 


L’immigrante imparava la lingua sul luogo di lavoro, ad orecchio, alla buona, senza formazione.  I suoi figli nati in Québec, quelli più fortunati, continuavano gli studi, gli altri, vista la situazione finanziaria precaria della famiglia, dovevano interrompere gli studi per lavorare già alla fine delle elementari.  


 


Quindi, gli italiani parlavano entrambe, insomma parlavano una lingua accentata.  Ma all’opposto del testo di Rimanelli fra loro parlavano l’italiano. Successivamente, gli italiani nati in Québec, che hanno studiato in inglese, parlano inglese fra loro, ma possono parlare anche in francese con i francofoni. Fino ad oggi è così per la famiglia della mia cerchia. Invece,  nel testo di Giose Rimanelli ci sono certe parole che mi rammentano la mia infanzia, come chandi per caramelle, strit per viale, storo per negozio, mio nonno diceva aize skrim per gelato, tutte parole d’origine inglese inserite nel nostro dialetto. A mio parere il dialetto italiano d’allora era diventato un dialetto “americanizzato”.


 


Dagli anni ‘50 in poi, molti italiani immigravano in Québec, e poiché la vita economica era più equilibrata, avevano l’opportunità di proseguire gli studi fino all’università. La maggioranza decideva di studiare in inglese, seguendo la cultura sistemata.


 


Ma dal 1977 tutto è cambiato. All’incontrario delle altre provincie del Canada, dove si parla inglese, la Carta della Lingua francese definiva il francese come lingua ufficiale della provincia del Quebec, nei settori dell’ insegnamento,  comunicazione, lavoro, commercio, pur riconoscendo i diriti della comunità inglese e delle loro istituzioni.


 


Ora, dopo questa nuova legislazione quebecchese, è obbligatorio sostenere un corso di francese, indispensabile per entrare nella provincia. L’obiettivo è quello di conservare la lingua francese.


 


Secondo me, per conservare questa lingua è importantissimo promuovere l’insegnamento scolastico, portando l’accento sull’insegnamento della letteratura per poter migliorare il registro della lingua, e questo in ogni ceto della società, per parlare e scrivere un francese impeccabile. La lettura è  dunque importantissima per imparare una lingua.


 


Gli italiani di Québec si sono integrati benissimo, parlano un ottimo francese e inglese, e, con l’italiano, la maggior parte di loro parla tre lingue. Si può dire che se la sono cavata bene, come lo descrive Rimanelli.


 


 


 

venerdì 16 gennaio 2009

Commenti di Pietro Corsi su Rimanelli


Ugo Moretti, Giose Rimanelli, Pietro CorsiPietro Corsi risponde alle domande su Giose Rimanelli



 


I destini di due scrittori molisani, Giose Rimanelli e Pietro Corsi, si sono incrociati varie volte. La prima perché tutti e due nati nello stesso paese, Casacalenda. Poi perché da giovani si sono ritrovati, alla ricerca del loro avvenire, prima a Roma poi in Canada. Infine, amici per la pelle, si sono frequentati assiduamente anche se poi hanno svolto attività diverse.


Proprio perché Pietro Corsi conosce a fondo la produzione “rimanelliana”  ha potuto rispondere con precisione e competenza alle domande  che Molise d’Autore ha posto, e quello che ne viene fuori è un ritratto inedito dell’Autore.


 
1.
Giose Rimanelli dimostra fin da ragazzo una vocazione sicura per la scrittura. Quale importante scrittore lo segue fin dai suoi esordi?
Dopo una lunga serie di avventure, durante e dopo la seconda guerra mondiale, Rimanelli entrò in contatto, a Roma, con Francesco Jovine. Il quale, prima riluttante, lesse un manoscritto che Giose si portava appresso: le sue "memorie" di guerra, e ne apprezzò il valore. Ma apprezzò, soprattutto, il talento del suo giovane corregionale.

2.
Dove nasce lo scrittore e di che nazionalità è la madre.
Rimanelli è nato a Casacalenda. Sua madre era canadese.

3.
Quali sono i romanzi scritti da Rimanelli in Italia?
Il primo, Tiro al Piccione, del 1953. Doveva essere pubblicato da Einaudi, che ne aveva già approntate le bozze. Poi però successe qualcosa, presso la Einaudi stessa, e finì per essere pubblicato da Mondadori. L'anno dopo, sempre con Mondadori, esce Peccato originale. Fu seguito da Biglietto di terza, nel 1958. Ne scrissi qualcosa anche io, credo su Il Tempo, se ben ricordo. E poi ancora, Una posizione sociale, con Vallecchi. Questo libro era accompagnato da un disco (una novità in quei giorni), che conteneva musica jazz: perché il romanzo era un po' la storia di nonno Dominick, suonatore di sax a New Orleans. Lo stesso anno esce anche Il mestiere del furbo, con un editore genovese, Sugar. Era firmato A.G. Solari, nome dietro il quale Giose voleva nascondere la sua vera identità perché il contenuto era "pesante" per il mondo letterario italiano di quei giorni. Ma qualcuno rivelò che A.G. Solari e Giose Rimanelli erano la stessa persona e questo segnò, per Giose, la fine, la morte in Italia. Parlava di cose vere, e di vizi che si nascondevano, in quei giorni come forse ancora oggi, nei salotti letterari. Da amico di tutti, per tutti diventò nemico. Ragion per cui quel libro rimase nei magazzini dell'editore, merce scomoda, che scottava.

Tra I libri scritti non in Italia, ma in italiano, bisogna poi menzionare anche
Tragica America, Molise Molise, Il tempo nascosto tra le righe, e Graffiti. Per non citare, poi, anche la sua ben ricca produzione poetica, incluso il "musichiere molisano" Moliseide.

4.
Dove si svolge la vita di Rimanelli?
Nel mondo, direi. E tuttavia il suo vero mondo, quello che sempre ricorre nei suoi scritti, è uno solo e si chiama, ancora oggi, Molise. Rimanelli ha vissuto a Casacalenda molto poco, quel tanto necessario,  per "marcarlo" per il resto della sua vita. Dopo Casacalenda, Rimanelli ha vissuto a Roma per alcuni anni, quindi in Canada, Montreal, alla redazione de “Il Cittadino Canadese”, ma solo per dieci mesi. Poi di nuovo a Roma, quindi New York, Vancouver, Los Angeles (Malibu). Lasciò la California nel 1966, per trasferirsi ad Albany, sempre nello Stato di New York, dove restò per il resto della sua vita di professore universitario. Da allora segue sua moglie, come lui professoressa universitaria, ovunque lei venga assegnata: Pensilvania, Minnesota, Florida, Massachussets. Ora i due hanno casa a Lowell, nel Massachussets, appunto, ma a lui piace "svernare" in Florida, in un appartamento di Pompano Beach che ha un balcone che affaccia sul mare. Forse il mare gli dà il sereno che la neve gli nasconde.

5.


Fred Gardaphé ha scritto di Rimanelli che è un "border writer". Cosa significa?
Bisognerebbe chiederlo allo stesso Gardaphé. La parola inglese border significa, più propriamente, o più comunemente, confine; ma ha anche altri significati, come molte parole della lingua inglese. L'American Heritage Dictionary indica ben otto sinonimi, tra i quali anche margine. Margine?
Volendo interpretare Gardaphé, pupillo di Rimanelli nel mondo accademico italo-americano, credo che volesse dire scrittore di confine senza confini, senza limiti. Infatti, Rimanelli ha scritto romanzi, critica letteraria, saggi, poesia in lingua, poesia in dialetto. Senza dimenticare che ha anche... dipinto!, e non solo ad olio. 

6.
Quali sono le varie lingue di cui si è servito Rimanelli nella sua prolifica scrittura?
Soltanto italiano e inglese, se non sbaglio. E poi, per le sue poesie, il dialetto del suo Molise.

7.
Chi è il regista del film Tiro al piccione, liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Rimanelli, e quale è la trama?
Montaldo. Tiro al piccione fu, il suo primo film. Rimanelli e Montaldo non si sono mai conosciuti, anche perché Rimanelli era già in America quando il film entrò in cantiere. Si sono conosciuti solo sei/sette anni fa, a Roma, in un incontro organizzato, se ben ricordo, in una libreria storica di Campo dei Fiori. Si conobbero, si spiegarono, si capirono. E forse, assieme, piansero anche perché quel film non piacque a nessuno dei due. Montaldo confessò, infatti, che dovette aspettare quattro o cinque anni prima di ricevere un nuovo incarico. La trama del film segue, molto liberamente, quella del libro, ma sfigura sia il personaggio, che il vero "filo" del racconto.

8.
Quale libro di Rimanelli, scritto in inglese, vince il "premio American Book" nel 1994?
Si tratta di Benedetta in Guysterland, pubblicato da Guernica. Il premio fu consegnato a Los Angeles, durante una convenzione della “Booksellers Association”, una specie di fiera del libro.

9.
Oltre a questo romanzo, puoi citarne altri scritti in inglese?
Beh, c'è l'antologia critica Modern Canadian Stories; quella intitolata Literature: Roots & Branches. E poi, Detroit Blues. Tra non molto dovrebbe uscire anche The three legged one.
Abbiamo parlato di romanzi e di critica, saggi, ma non anche della sua produzione poetica, molto ricca. Ma questa è un'altra storia.   

10.
Di che cosa scrive Rimanelli?
Beh, la risposta possiamo trovarla tra le domande, e le risposte, che precedono.

11.
Che cosa ti suscitano questi brevi estratti di Biglietto di terza, racconti autobiografici dell'Autore? Puoi fare un commento su questa opera, o su altre opere di Rimanelli.
Non mi sento di fare commenti, al rischio di dover assumere il ruolo di critico letterario. Voglio comunque aggiungere che
Biglietto di terza è, e continua ad essere, una testimonianza d'emigrazione degli anni Cinquanta, viva e valida ancora oggi. Tanto che è stato ripubblicato, pochi anni fa, e sempre in italiano, in una bellissima edizione Soleil, (casa editrice canadese), con una postfazione di Giuseppe Prezzolini, così come apparsa su “Il Cittadino Canadese” nel 1959


Pietro Corsi


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La foto in alto da sinistra: lo scrittore Ugo Moretti, Giose Rimanelli e Pietro Corsi alla fine degli anni '80




giovedì 15 gennaio 2009

Risposte su Giose Rimanelli

Altre risposte alle domande su Giose Rimanelli e la sua produzione:


 


Il film "Tiro al piccione" è del 1961, per la regia di Giuliano Montaldo. Racconta la vicenda del giovane idealista Marco, che, dopo l'armistizio, si arruola nelle file della repubblica di Salò. Malgrado compia atti di eroismo, ricevendo il plauso dei compagni, ben presto la disillusione è alle porte: Marco, e gli altri repubblichini con lui, stanno combattendo una guerra assurda, persa in partenza. Libro bellissimo e film bellissimo, benché molto amari.  (anonimo)


 


Il padre è di Casacalenda, la madre canadese. Il premio è vinto da Benedetta in Guysterland; in italiano ha scritto Molise Molise, del 1979. Border writer fa riferimento all'assillo che emerge nella sua scrittura: ricerca delle radici, odio-amore con il Molise, rapporto con il resto del mondo (e con se stesso); la finzione del dialetto, in Rimanelli, è di recupero di una certa genuinità raffrontata al conformismo linguistico.  (Rita)


 


Rimanelli è un vero ciclone della scrittura: all'attività narrativa ha unito quella della poesia, del teatro, del giornalismo e della critica letteraria, in italiano, in inglese e... in dialetto molisano (Maria)


 


Secondo me Gardaphé  voleva dire che la scrittura di Giose Rimanelli ha un carattere cosmopolita, senza frontiere e, quindi, non può essere definita solo italo-americana.  (Pasquale)


 


Rimanelli ha scritto di tutto, romanzi, pièces teatrali, saggi, ballate, canzoni, poesie, utilizzando una grande varietà di lingue. Infatti le sue poesie e i suoi romanzi sono stati scritti in italiano, inglese, francese, lo slang italo-americano, il latino medievale, il dialetto molisano.  (Annamaria)


 


Quella di Rimanelli è stata un’emigrazione atipica. La madre era canadese e il padre aveva vissuto in America prima di ritornare in Italia (anche il nonno era stato negli Stati Uniti). Lui, quando andò in America, aveva già una reputazione di scrittore e, dunque, un backgroud di alto livello. Il connubio tra la sua cultura italiana e quella americana, è stato, secondo me, quello che gli ha permesso di arricchire la sua poliedrica produzione di opere veramente originali e di entrare nelle università prestigiose d’Oltreoceano. (Gius)

domenica 4 gennaio 2009

Rimanelli, estratti da Biglietto di Terza

DSC00447Giose Rimanelli,   biglietto di Terza, Arnoldo Mondadori, 1958


 


(incipit)


Sulla rotta degli emigranti mia madre è tornata nel suo paese. Vi è tornata portandosi il materasso, i piatti e i bicchieri, un ritratto del padre morto, i figli e il marito.


    Settemila chilometri di mare.


    Diceva la prima lettera:


    “Sono venuti i miei fratelli Pat e Johnny e mi hanno accompagnata alla chiesa della Difesa, mi hanno fatto vedere i nostri nomi stampati sul marmo e scritti sui registri di battesimo. Mi hanno detto: ‘Sei tornata a casa, Susy’, e sarei dovuta essere contenta perché ero tornata a casa. Ma guardavo mio marito che stava dietro, e non s’interessava, ché lui non è nato qui, e solo adesso, forse ha pensato di aver sposato una straniera.


    “Pure i fratelli mi presentarono a della gente, e anche una donna era stata mia compagna di scuola. La donna cominciò a dirmi: ‘Abitavamo a Mile-End dietro lo storo di Mike Jordan, e Mike ci regalava un sacchetto di chendi tutte le volte che gli portavamo un secchio d’acqua, perché allora non c’era acqua a Mile-End e la prendevamo alla pompa di Joe Scamatto, e Joe una volta ci ha messo dietro i cani…’.


    “E così mi ha seguitato per molte ore. Questa donna ha una memoria che io non ho e, sentendola, mi pare impossibile che io abbia realmente conosciuto della gente che si chiama Mike Jordan e Joe Scamatto. Mi pare ugualmente impossibile che io, qui, sia mai esistita. Sono passati quasi quarant’anni.


    “Naturalmente non riconoscevo nessuno. Ho dimenticato anche la mia parlata, ed è difficile spiegarsi ora, come è difficile riaffezionarsi. Ricordo, di quella mia infanzia, soltanto case di legno e strade fangose e gente che andava a cavallo. E ricordo mio fratello maggiore che adesso è a Detroit da trent’anni ma in quel tempo lavorava a una miniero di ferro fuori città, e quando tornava mi parlava di certi film muti coi cavalli che mi avrebbe condotto a vedere, e non lo fece mai; e ricordo mio padre che suonava la tromba di notte, in mezzo allo strit, e doveva sempre giungere lo sceriffo per calmarlo. Per me, io sono sempre vissuta in Italia.  […]


 


p.10 […] Casa mia sta in mezzo alla piazza col balcone in fuori come una signora distinta fra i suoi vicini plebei, e sebbene la vecchiaia le abbia strappato l’intonaco in più punti, e abbia corroso, sotto, la pietra, non sfigura ancora. Dalla parte alta si sporge sul giardino e i campi in pendio e la ferrovia e le colline laggiù che chiudono il cielo; dall’altra vede le processioni e la banda, i contadini e gli artieri, la pompa della benzina Shell e la cucina della sarta Ersilia Caluori, la sua macchina da cucire vecchio tipo, le scolare che domani prenderanno il volo.


 


p.38 […]  «Vecchio filibustiere, poeta mio, come va la pellaccia?» disse.


    «Sono qui» risposi.


    «Già, già, sei qui» fece lui. E guardando le valigie ricche che portavo, queste valigie che per civetteria avevo tappezzato con etichette di alberghi di paesi lontani, sgranò gli occhi e, allegramente, e per paradosso, gridò: «Ma guarda il fratellino ricco. Vieni forse dall’America? Nemmeno lo zio Pat, che pure è ricco sfondato, possiede valige come le tue».


    Poi, indicando le valigie: «Come facciamo a portarle?»


    «Chiama un facchino» dissi.


    «Facchino? E che, sei pazzo? Un facchino, da qui all’uscita, vale minimo cinque dollari, tremiladuecentocinquantacinque lire, e se incominci a seminare i soldi che ancora, si può dire, scendi dal treno, stai fresco. Qua i soldi si sudano e si mettono in banca. Non si regalano, impara.»


    E ciò detto si caricò sulle robuste spalle il mio baule-armadio, e via sulla scala mobile nelle grida nei canti nell’ammasso di uomini discesi dal treno, voltandosi ogni tanto per gridarmi:


    «Vieni, sbrigati, porta le altre valige. Ma che ci hai messo il piombo qua dentro?»


    «Sono i libri che fanno peso.»


    «Formidabile, sono i libri! Ma se li hai letti perché li porti dietro?»


    «Sono da leggere» risposi. «E, dimmi» aggiunsi «non è venuto nessun altro?»


    «No, fratello. Ti aspettano tutti a casa per il cenone. Troverai almeno un paio di dozzine di parenti. Ma fuori della stazione ci aspetta il gentleman.»


    «E chi è il gentleman


    «Ma Gino, naturalmente. Gino con la sua Oldsmobile


    Il fratello Gino, così indolentemente seduto al volante della sua grossa automobile bicolore, con l’aria annoiata, e vestito all’ultima moda, rappresentava bene la parte del gentleman, Il ragazzo che avevo abbracciato l’ultima volta al molo di Napoli, cinque anni prima, non esisteva più.


    «Allo, brother. How are you? Ciao, fratello, come stai?» mi salutò, stendendomi la mano dallo sportello della macchina, il fratello Gino.


    «Sto bene, grazie»  risposi alquanto sconcertato.


    «Guarda che lui parla solo in inglese» mi avvertì, non senza ironia, Antonio.


    «You are a bore, Tony. You understand? Mi infastidisci, Antonio. Hai capito?»


    «T’es bien marrant, toi! E tu mi stufi» l’altro gli rispose.


    «Ragazzi, ma che succede?» chiesi sbalordito. Uno parlava l’inglese e l’altro rispondeva in francese. Entrambi erano in grado di intendere le due lingue; mi parve tuttavia evidente, da questo primo incontro, che i due fratelli vivessero in continua polemica. Infatti il più giovane s’era fatta un’educazione inglese, gusto, lingua e un discreto disprezzo per i francesi; Antonio un’educazione francese, gusto, lingua e un discreto disprezzo per gli inglesi. E fra loro raramente parlavano italiano e, sempre per polemica e puntiglio, uno interrogava in inglese l’altro rispondeva in francese. Forse per tener salde le loro rispettive conquiste in terra canadese.


 


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Domande su Giose Rimanelli

DOMANDE PER VOI su Giose Rimanelli e la sua opera   


 


1.  Giose Rimanelli dimostra fin da ragazzo una vocazione sicura per la scrittura. Quale importante scrittore lo segue fin dai suoi esordi?


2.  Dove nasce lo scrittore e di che nazionalità è la madre?


3.  Quali sono i romanzi scritti da Rimanelli in Italia?


4.  Dove si svolge la vita di Rimanelli?


5.  Fred Gardaphé ha scritto di Rimanelli che è un “border writer”. Cosa significa?


6.  Quali sono le varie lingue di cui si è servito Rimanelli nella sua  prolifica scrittura?


7.  Chi è il regista del film Tiro al piccione, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Rimanelli e qual è la trama?


8.  Quale libro di Rimanelli, scritto in inglese, vince il “premio American book” nel 1994?


9.  Oltre a questo romanzo puoi citarne altri scritti in inglese?


10. Di che cosa scrive Rimanelli?


11. Che cosa ti suscitano questi brevi estratti di Biglietto di terza  racconti autobiografici dell’Autore? Puoi fare un commento su questa opera o su altre opere di Rimanelli.