Giose Rimanelli, biglietto di Terza, Arnoldo Mondadori, 1958
(incipit)
Sulla rotta degli emigranti mia madre è tornata nel suo paese. Vi è tornata portandosi il materasso, i piatti e i bicchieri, un ritratto del padre morto, i figli e il marito.
Settemila chilometri di mare.
Diceva la prima lettera:
“Sono venuti i miei fratelli Pat e Johnny e mi hanno accompagnata alla chiesa della Difesa, mi hanno fatto vedere i nostri nomi stampati sul marmo e scritti sui registri di battesimo. Mi hanno detto: ‘Sei tornata a casa, Susy’, e sarei dovuta essere contenta perché ero tornata a casa. Ma guardavo mio marito che stava dietro, e non s’interessava, ché lui non è nato qui, e solo adesso, forse ha pensato di aver sposato una straniera.
“Pure i fratelli mi presentarono a della gente, e anche una donna era stata mia compagna di scuola. La donna cominciò a dirmi: ‘Abitavamo a Mile-End dietro lo storo di Mike Jordan, e Mike ci regalava un sacchetto di chendi tutte le volte che gli portavamo un secchio d’acqua, perché allora non c’era acqua a Mile-End e la prendevamo alla pompa di Joe Scamatto, e Joe una volta ci ha messo dietro i cani…’.
“E così mi ha seguitato per molte ore. Questa donna ha una memoria che io non ho e, sentendola, mi pare impossibile che io abbia realmente conosciuto della gente che si chiama Mike Jordan e Joe Scamatto. Mi pare ugualmente impossibile che io, qui, sia mai esistita. Sono passati quasi quarant’anni.
“Naturalmente non riconoscevo nessuno. Ho dimenticato anche la mia parlata, ed è difficile spiegarsi ora, come è difficile riaffezionarsi. Ricordo, di quella mia infanzia, soltanto case di legno e strade fangose e gente che andava a cavallo. E ricordo mio fratello maggiore che adesso è a Detroit da trent’anni ma in quel tempo lavorava a una miniero di ferro fuori città, e quando tornava mi parlava di certi film muti coi cavalli che mi avrebbe condotto a vedere, e non lo fece mai; e ricordo mio padre che suonava la tromba di notte, in mezzo allo strit, e doveva sempre giungere lo sceriffo per calmarlo. Per me, io sono sempre vissuta in Italia. […]
p.10 […] Casa mia sta in mezzo alla piazza col balcone in fuori come una signora distinta fra i suoi vicini plebei, e sebbene la vecchiaia le abbia strappato l’intonaco in più punti, e abbia corroso, sotto, la pietra, non sfigura ancora. Dalla parte alta si sporge sul giardino e i campi in pendio e la ferrovia e le colline laggiù che chiudono il cielo; dall’altra vede le processioni e la banda, i contadini e gli artieri, la pompa della benzina Shell e la cucina della sarta Ersilia Caluori, la sua macchina da cucire vecchio tipo, le scolare che domani prenderanno il volo.
p.38 […] «Vecchio filibustiere, poeta mio, come va la pellaccia?» disse.
«Sono qui» risposi.
«Già, già, sei qui» fece lui. E guardando le valigie ricche che portavo, queste valigie che per civetteria avevo tappezzato con etichette di alberghi di paesi lontani, sgranò gli occhi e, allegramente, e per paradosso, gridò: «Ma guarda il fratellino ricco. Vieni forse dall’America? Nemmeno lo zio Pat, che pure è ricco sfondato, possiede valige come le tue».
Poi, indicando le valigie: «Come facciamo a portarle?»
«Chiama un facchino» dissi.
«Facchino? E che, sei pazzo? Un facchino, da qui all’uscita, vale minimo cinque dollari, tremiladuecentocinquantacinque lire, e se incominci a seminare i soldi che ancora, si può dire, scendi dal treno, stai fresco. Qua i soldi si sudano e si mettono in banca. Non si regalano, impara.»
E ciò detto si caricò sulle robuste spalle il mio baule-armadio, e via sulla scala mobile nelle grida nei canti nell’ammasso di uomini discesi dal treno, voltandosi ogni tanto per gridarmi:
«Vieni, sbrigati, porta le altre valige. Ma che ci hai messo il piombo qua dentro?»
«Sono i libri che fanno peso.»
«Formidabile, sono i libri! Ma se li hai letti perché li porti dietro?»
«Sono da leggere» risposi. «E, dimmi» aggiunsi «non è venuto nessun altro?»
«No, fratello. Ti aspettano tutti a casa per il cenone. Troverai almeno un paio di dozzine di parenti. Ma fuori della stazione ci aspetta il gentleman.»
«E chi è il gentleman?»
«Ma Gino, naturalmente. Gino con la sua Oldsmobile.»
Il fratello Gino, così indolentemente seduto al volante della sua grossa automobile bicolore, con l’aria annoiata, e vestito all’ultima moda, rappresentava bene la parte del gentleman, Il ragazzo che avevo abbracciato l’ultima volta al molo di Napoli, cinque anni prima, non esisteva più.
«Allo, brother. How are you? Ciao, fratello, come stai?» mi salutò, stendendomi la mano dallo sportello della macchina, il fratello Gino.
«Sto bene, grazie» risposi alquanto sconcertato.
«Guarda che lui parla solo in inglese» mi avvertì, non senza ironia, Antonio.
«You are a bore, Tony. You understand? Mi infastidisci, Antonio. Hai capito?»
«T’es bien marrant, toi! E tu mi stufi» l’altro gli rispose.
«Ragazzi, ma che succede?» chiesi sbalordito. Uno parlava l’inglese e l’altro rispondeva in francese. Entrambi erano in grado di intendere le due lingue; mi parve tuttavia evidente, da questo primo incontro, che i due fratelli vivessero in continua polemica. Infatti il più giovane s’era fatta un’educazione inglese, gusto, lingua e un discreto disprezzo per i francesi; Antonio un’educazione francese, gusto, lingua e un discreto disprezzo per gli inglesi. E fra loro raramente parlavano italiano e, sempre per polemica e puntiglio, uno interrogava in inglese l’altro rispondeva in francese. Forse per tener salde le loro rispettive conquiste in terra canadese.
***°°°***
Nessun commento:
Posta un commento