All’Archivio di Stato di Campobasso
si è tenuta la presentazione del volume “Memorie del Risorgimento”. Avvenimenti e
protagonisti nel Molise”, a cura di Renata De Benedettis, che raccoglie
gli scritti, ispirati ai fatti avvenuti nel Molise a cavallo tra il 1860 e il
1861, di coloro che avevano abbracciato la causa unitaria. A completare l’opera, una raccolta di
biografie di garibaldini molisani e di protagonisti che sono venuti nel Molise
per combattere una dura battaglia contro i borbonici, stilate da Barbara
Bertolini, Luigi Biscardi, Annalisa Carlascio, Renata De Benedettis, Rita
Frattolillo, Antonio Santoriello.
Tra gli illustri relatori dell’Università
di Salerno, Francesco Barra, Pier Luigi Rovito e Sebastiano Martelli oltre agli
interventi del Presidente dell’Associazione culturale “Vincenzo Cuoco”, Luigi
Biscardi, della curatrice del libro, Renata De Benedettis e della Direttrice
dell’Archivio di Stato di Campobasso, Annalisa Carlascio. Sono intervenute anche
Barbara Bertolini e Rita Frattolillo per illustrare la vita dei protagonisti
molisani.
Qui di seguito la relazione tenuta da
Rita Frattolillo su “Memorie del Risorgimento in Molise”:
“….Prima di parlare dei miei patrioti e del
loro ardimento, Nicola Campofreda e dei suoi figli Antonio, Luigi e Achille,
dell’avvocato Girolamo Pallotta di Bojano, dell’eroe mirabellese Francesco De
Feo, vorrei spendere qualche minuto per
accennare al ruolo delle donne nel processo unitario.
Per farlo, vi invito a inoltrarvi idealmente con me tra
le mura domestiche di certe dimore molisane, perché non v’è dubbio che l’Unità
d’Italia non è stata solo il prodotto del sangue dei campi di battaglia o degli
intrighi e interessi nazionali e internazionali, ma il risultato ben visibile
di un lungo e paziente lavorio - purtroppo invisibile - di sostegno, aiuto,
convincimento alla causa risorgimentale, portato avanti proprio lì, tra le mura
domestiche, da donne vere, avvertite e sensibili, che, assumendosi una grande
responsabilità, hanno affermato gli ideali risorgimentali inculcandoli nei
figli, di cui sono state mentori e
guide, li hanno invogliati a passare
all’azione al momento giusto e a compiere il loro dovere verso la patria.
Sapete bene che all’epoca le condizioni ambientali sfavorevoli, la compressione
sociale, l’angustia dello scenario locale, insomma, impedivano alle donne di
esporsi, di partecipare direttamente alla vita pubblica, e d’altra parte, nella
miscela esplosiva del periodo risorgimentale, non era facile orientarsi, gli
orizzonti erano cupi, si era divisi tra i “codini fedeloni” (come aveva scritto
don Agostino Tagliaferri, docente nel seminario di Bojano) e il patriottismo; i
sospetti, le delazioni e i conflitti erano all’ordine del giorno; per cui,
mentre alcune donne restavano dietro la porta chiusa dalle convenzioni sociali e
dall’indifferenza, e mentre delle ragazze,
come la Silvia decantata da Alberto Mario (l’intellettuale garibaldino veneto
fervente mazziniano amico di Carducci che con La camicia rossa –caposaldo della memorialistica garibaldina- ha
fatto conoscere all’Italia post-unitaria un Molise dalle tinte forti) covavano
la vendetta contro il Borbone senza tuttavia passare ai fatti, e altre, infine, per sfuggire al mondo correvano a rinchiudersi in convento, come
fecero le cinque sorelle del garibaldino luogotenente di F. De Feo Gaetano
Bracale, che divennero tutte suore (
riesce un po’ difficile credere a una
vocazione collettiva), eppure, dicevo, malgrado l’avversità dei tempi, malgrado
quel contesto sociale, non sono
mancate donne di grande spessore morale, che con slancio patriottico e
coraggio hanno acceso nei figli l’amor
patrio e li hanno spinti all’azione. I loro nomi forse non li conosceremo mai,
ma due ve li posso fare: Enrichetta Formichelli, vedova del notaio
Domenicangelo di Isernia, madre di sei figli di cui tre maschi, ideò
nell’agosto ‘60 uno stratagemma per corrompere i cacciatori regi accampati nei
pressi del suo palazzo, invitandoli a disertare tra una cena e l’altra
allestita per quasi un mese sulla terrazza di casa sua . L’impresa, portata
avanti con la cognata Teresa, ebbe successo, e i tre ragazzi Formichelli poterono guidare i borbonici “convertiti”
anziché a Caiazzo, (dove era la postazione napoletana), verso il Matese, dove
si trovavano i garibaldini.
L’altro nome è quello della
nobildonna Teresa Lembo di Lupara, madre di cinque femmine, bisnonna di Lina Pietravalle;
perno della sua famiglia, educò i figli negli ideali liberali, e,
spingendo alla battaglia l’unico figlio
maschio, Giuseppe Suriani, che ardeva d’entusiasmo ma era fermato dalla
angosciata opposizione della giovane moglie, Luisa Bucci di Larino, ne dovette
piangere l’uccisione, avvenuta durante i terribili scontri e i massacri di
Isernia del 17 ottobre ‘60, la cui eco giunse fino al Parlamento inglese per
bocca del ministro degli esteri lord Russel. Quella tragica morte, che portò
alla tomba poco dopo Teresa, consumata dal rimorso, ha trovato risonanza
letteraria grazie al cognato, marito di Virginia Suriani, Vincenzo De Lisio (l’intellettuale
di Castelbottaccio che sarà padre del pittore Arnaldo), e, circa 80 anni dopo,
grazie alla penna di Francesco Jovine che in una frase lapidaria del capolavoro
meridionalista Signora Ava (1942)
sintetizza il sacrificio del giovane. La
testa mozzata del giovane, allineata con le altre sulla fontana pubblica del
largo della Concezione di Isernia, venne riconosciuta con strazio dal
garibaldino Domizio Tagliaferri, che aveva partecipato alla spedizione De Luca,
e, fatto prigioniero durante la battaglia di Pettoranello, veniva condotto alle
carceri di Gaeta. A Gaeta, lo racconta Domizio, gli fu promessa salva la vita
se avesse rivelato chi era tra loro l’attendibile Francesco De Feo.
E con lui (1828 - 1879) torniamo sui campi di
battaglia. Francesco, esponente di una stirpe che ha dato all’Italia, nel
tempo, personalità di spicco in campo militare (il nipote Vincenzo 1876-1955 è comandante di
sommergibili durante la I guerra mondiale e governatore dell’Eritrea, 1937) e
scientifico (ha messo a punto le nuove centrali di tiro, adottate dalla flotta
durante la II guerra mondiale, mentre un altro nipote, Ugo Tiberio, inventa il
prototipo del radar , il radiotelemetro) malgrado l’ambiente di fede borbonica,
si infervora per gli ideali liberali e a
20 anni si imbarca a Napoli, dove era studente,
sul vapore “M.Cristina” noleggiato dalla principessa Cristina di Belgioioso
per correre in aiuto dei lombardi a Curtatone (29 maggio ’48), dove morirà
Leopoldo Pilla e lui rimarrà ferito. Da allora si distingue su molti campi di
battaglia, e quando rientra a Mirabello
S., pur se schedato come attendibile, e vessato (persino per l’inno politico Italia di oggi composto da giovane), non
rinuncia alla sua azione patriottica. Si laurea in legge e lettere, esercita
l’avvocatura a Campobasso, nello stesso tempo rafforza i contatti con i gruppi
liberali molisani, si lega d’amicizia con Nicola De Luca e aderisce al comitato
fondato da Giuseppe Demarco di Paupisi. Il 30 agosto ’60, quando Garibaldi
proclama la dittatura a Napoli, De Feo innalza il tricolore sul castello
Monforte. Non posso dilungarmi sulla fase successiva, costellata di battaglie
ma anche di divergenze con il colonnello dei cacciatori del Vesuvio Teodoro
Pateras riguardanti la conduzione delle operazioni militari nel momento più
critico della reazione filo borbonica; sta di fatto che Vittorio Emanuele II,
il 24 ottobre ‘60 a Venafro, riceve Francesco, nominandolo sottintendente di Isernia
(De Luca è confermato sottogov. del Molise). Da questo momento, De Feo si
impegna nella lotta al brigantaggio, come sottoprefetto e prefetto, divenendo
ad appena 45 anni il più giovane prefetto d’Italia. Per la sua abnegazione e la
prontezza delle sue iniziative ottiene promozioni e riconoscimenti di grande
prestigio.
Ma con i briganti aveva avuto a che
fare in più riprese l’audace e ambizioso albanese di Portocannone Nicola
Campofreda (1794-1873), la prima volta quando gli uccisero il padre Nazario in
una imboscata, e poi quando ebbe dal governo l’incarico di stanarli: dopo una
serie di agguati e vendette la banda Vardarelli è distrutta nel 1818. Impetuoso
e ribelle, Nicola aveva conquistato una grande influenza nel proprio
territorio, e fin dal 1820 è segnalato alle autorità quale uomo facinoroso per
indole; nel ’28 conosce le carceri di Castel dell’Ovo perché accusato di complicità
con i rivoltosi del Cilento, ma nondimeno gli vengono assegnati diversi
incarichi governativi, forse anche per “tenerlo attaccato alla causa
dell’ordine”. In realtà mentre a parole si dichiara fedele alla Corona, nei
fatti intreccia rapporti con i patrioti napoletani, abruzzesi e molisani
(Dragonetti, Piersilvestro Leopardi, Carlo Poerio, Silvio Spaventa, Nicolangelo
Petitti , Giacomo De Santis) e per
questo ha dato qualche pensiero agli storici. Nel settembre ’47 mette in piedi
un movimento insurrezionale che finisce con gli interrogatori di Nicola da parte
della polizia e con l’arresto dei figli Luigi e Achille. L’anno successivo,
giugno ’48, prende parte alla cospirazione di Casacalenda (il comitato di
Larino discuteva dell’assalto alle truppe borboniche di ritorno dalla
Lombardia) in cui risultano imputati Nicola e Achille. Il 4 sett. ’60, convinto
dai patrioti napoletani a promuovere l’insurrezione nel Molise, Nicola, benché
ormai 66enne, muove da Portocannone con Luigi e Achille, valenti tiratori a
cavallo, a capo di una colonna che si va ingrossando via via che si avvicina alla
città. Qualche giorno dopo il neogovernatore De Luca invia a Isernia i
Campofreda e i 200 volontari da loro radunati, ma affida il comando al
commissario politico, medico Giacomo De Santis. L’affronto subito viene attutito
dalla lettera inviata il I ott. da Garibaldi a Nicola e Achille in cui li autorizza
a chiamare i cittadini alle armi e fa conto sulla loro energia e sul loro
patriottismo. E tutti i Campofreda prendono parte attiva ai fatti d’arme
dell’autunno ’60. In particolare, il 4 ott. Luigi, capitano come Achille, ma
anche uomo di cultura, che ha lasciato diversi scritti, tra cui Cenno storico-politico (1861, sostanzialmente
pamphlet contro Nicola De Luca),
prende d’assalto Isernia con i suoi volontari albanesi nelle prime file, mentre
Achille, che è il primogenito, è l’eroe di Pettorano “per l’indomito coraggio
mostrato durante il tragico attacco 17 ott. a Carpinone e Pettorano nel corso
del quale riesce anche a salvare i suoi dal massacro”.
La disfatta del 17 ott.’60 è anche il nodo a
cui è legato il nome di Girolamo Pallotta (1804- 1866)di Bojano. Quest’avvocato,
nato in un ambiente culturalmente aperto, era stato convinto fautore delle
riforme vòlte a migliorare le misere condizioni del popolo, amministratore attento e sensibile; ma da riformatore era
diventato rivoluzionario quando nel ‘48 aveva perso fiducia nel sovrano
borbonico.
Pallotta il 5 sett. ’60 – prima ancora di Napoli- aveva
dichiarato l’adesione di Bojano alla monarchia sabauda, proclamandosi
pro-dittatore del nuovo governo provvisorio; poi, temendo la reazione delle
truppe regie appostate sulla consolare per Isernia, dimessosi da pro-dittatore (nelle mani del
neo-governatore De Luca), era corso da Garibaldi a Caserta per chiedere
rinforzi ai suoi 3000 volontari previsti,
rinforzi che ottenne solo grazie alla sua tenacia. Purtroppo, c’è da
dire che aveva sopravvalutato lo spirito patriottico dei suoi conterranei, che
mancarono all’appello – arrivarono solo venti uomini con un sergente e un caporale- eccezion fatta per i duecento
volontari albanesi dei Campopfreda. A tale proposito Domizio Tagliaferri rammenta che l’ordine impartito da Garibaldi al
colonnello Nullo era di non attaccare prima dell’arrivo dei piemontesi di Cialdini,
previsto per il 20 ott., ma il colonnello Nullo, disobbedendo, attacca andando
incontro alla disfatta, della quale A. Mario, per motivi ideologici (era fiero repubblicano),
getta la croce addosso al gentiluomo di Bojano(favorevole alla monarchia
sabauda), per aver “ingannato”Garibaldi ventilando la presenza di volontari mai
arrivati. Ma il giudizio severo di A.Mario era anche dettato dalla contrarietà per
essere stato allontanato dall’amato generale Garibaldi allo scopo di “dare la caccia a qualche
cafone infellonito” con Francesco Nullo,
Emilio Zasio e Caldesi, che avrebbero preferito correre all’assalto di Capua
con Garibaldi.
Concludendo, direi che una felice
confluenza di eventi, energie e volontà ha fatto sì che questi nostri patrioti,
pur così diversi per temperamento ed estrazione sociale, abbiano dato il meglio
di sé in un momento di svolta epocale per la nostra Storia Nazionale.
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