domenica 28 aprile 2013

Memorie del Risorgimento in Molise




All’Archivio di Stato di Campobasso si è tenuta la presentazione del volume “Memorie del Risorgimento”. Avvenimenti e protagonisti nel Molise”, a cura di Renata De Benedettis, che raccoglie gli scritti, ispirati ai fatti avvenuti nel Molise a cavallo tra il 1860 e il 1861, di coloro che avevano abbracciato la causa unitaria.  A completare l’opera, una raccolta di biografie di garibaldini molisani e di protagonisti che sono venuti nel Molise per combattere una dura battaglia contro i borbonici, stilate da Barbara Bertolini, Luigi Biscardi, Annalisa Carlascio, Renata De Benedettis, Rita Frattolillo, Antonio Santoriello.

Tra gli illustri relatori dell’Università di Salerno, Francesco Barra, Pier Luigi Rovito e Sebastiano Martelli oltre agli interventi del Presidente dell’Associazione culturale “Vincenzo Cuoco”, Luigi Biscardi, della curatrice del libro, Renata De Benedettis e della Direttrice dell’Archivio di Stato di Campobasso,  Annalisa Carlascio. Sono intervenute anche Barbara Bertolini e Rita Frattolillo per illustrare la vita dei protagonisti molisani.

Qui di seguito la relazione tenuta da Rita Frattolillo su “Memorie del Risorgimento in Molise”:


“….Prima di parlare dei miei patrioti e del loro ardimento, Nicola Campofreda e dei suoi figli Antonio, Luigi e Achille, dell’avvocato Girolamo Pallotta di Bojano, dell’eroe mirabellese Francesco De Feo,  vorrei spendere qualche minuto per accennare al ruolo delle donne nel processo unitario.
Per farlo,  vi invito a inoltrarvi idealmente con me tra le mura domestiche di certe dimore molisane, perché non v’è dubbio che l’Unità d’Italia non è stata solo il prodotto del sangue dei campi di battaglia o degli intrighi e interessi nazionali e internazionali, ma il risultato ben visibile di un lungo e paziente lavorio - purtroppo invisibile - di sostegno, aiuto, convincimento alla causa risorgimentale, portato avanti proprio lì, tra le mura domestiche, da donne vere, avvertite e sensibili, che, assumendosi una grande responsabilità, hanno affermato gli ideali risorgimentali inculcandoli nei figli, di cui sono  state mentori e guide,  li hanno invogliati a passare all’azione al momento giusto e a compiere il loro dovere verso la patria. Sapete bene che all’epoca le condizioni ambientali sfavorevoli, la compressione sociale, l’angustia dello scenario locale, insomma, impedivano alle donne di esporsi, di partecipare direttamente alla vita pubblica, e d’altra parte, nella miscela esplosiva del periodo risorgimentale, non era facile orientarsi, gli orizzonti erano cupi, si era divisi tra i “codini fedeloni” (come aveva scritto don Agostino Tagliaferri, docente nel seminario di Bojano) e il patriottismo; i sospetti, le delazioni e i conflitti erano all’ordine del giorno; per cui, mentre alcune donne restavano dietro la porta chiusa dalle convenzioni sociali e dall’indifferenza,  e mentre delle ragazze, come la Silvia decantata da Alberto Mario (l’intellettuale garibaldino veneto fervente mazziniano amico di Carducci che con La camicia rossa –caposaldo della memorialistica garibaldina- ha fatto conoscere all’Italia post-unitaria un Molise dalle tinte forti) covavano la vendetta contro il Borbone senza tuttavia passare ai fatti, e altre, infine,  per sfuggire al mondo  correvano a rinchiudersi in convento, come fecero le cinque sorelle del garibaldino luogotenente di F. De Feo Gaetano Bracale, che divennero tutte  suore ( riesce  un po’ difficile credere a una vocazione collettiva), eppure, dicevo, malgrado l’avversità dei tempi, malgrado quel contesto sociale, non sono mancate donne di grande spessore morale, che con slancio patriottico e coraggio  hanno acceso nei figli l’amor patrio e li hanno spinti all’azione. I loro nomi forse non li conosceremo mai, ma due ve li posso fare: Enrichetta Formichelli, vedova del notaio Domenicangelo di Isernia, madre di sei figli di cui tre maschi, ideò nell’agosto ‘60 uno stratagemma per corrompere i cacciatori regi accampati nei pressi del suo palazzo, invitandoli a disertare tra una cena e l’altra allestita per quasi un mese sulla terrazza di casa sua . L’impresa, portata avanti con la cognata Teresa, ebbe successo, e i tre ragazzi Formichelli  poterono guidare i borbonici “convertiti” anziché a Caiazzo, (dove era la postazione napoletana), verso il Matese, dove si trovavano i garibaldini.
L’altro nome è quello della nobildonna Teresa Lembo di Lupara, madre di cinque femmine, bisnonna di Lina Pietravalle; perno della sua famiglia, educò i figli negli ideali liberali, e, spingendo  alla battaglia l’unico figlio maschio, Giuseppe Suriani, che ardeva d’entusiasmo ma era fermato dalla angosciata opposizione della giovane moglie, Luisa Bucci di Larino, ne dovette piangere l’uccisione, avvenuta durante i terribili scontri e i massacri di Isernia del 17 ottobre ‘60, la cui eco giunse fino al Parlamento inglese per bocca del ministro degli esteri lord Russel. Quella tragica morte, che portò alla tomba poco dopo Teresa, consumata dal rimorso, ha trovato risonanza letteraria grazie al cognato, marito di Virginia Suriani, Vincenzo De Lisio (l’intellettuale di Castelbottaccio che sarà padre del pittore Arnaldo), e, circa 80 anni dopo, grazie alla penna di Francesco Jovine che in una frase lapidaria del capolavoro meridionalista Signora Ava (1942) sintetizza  il sacrificio del giovane. La testa mozzata del giovane, allineata con le altre sulla fontana pubblica del largo della Concezione di Isernia, venne riconosciuta con strazio dal garibaldino Domizio Tagliaferri, che aveva partecipato alla spedizione De Luca, e, fatto prigioniero durante la battaglia di Pettoranello, veniva condotto alle carceri di Gaeta. A Gaeta, lo racconta Domizio, gli fu promessa salva la vita se avesse rivelato chi era tra loro l’attendibile Francesco De Feo.
 E con lui (1828 - 1879) torniamo sui campi di battaglia. Francesco, esponente di una stirpe che ha dato all’Italia, nel tempo, personalità di spicco in campo militare  (il nipote Vincenzo 1876-1955 è comandante di sommergibili durante la I guerra mondiale e governatore dell’Eritrea, 1937) e scientifico (ha messo a punto le nuove centrali di tiro, adottate dalla flotta durante la II guerra mondiale, mentre un altro nipote, Ugo Tiberio, inventa il prototipo del radar , il radiotelemetro) malgrado l’ambiente di fede borbonica,  si infervora per gli ideali liberali e a 20 anni si imbarca a Napoli, dove era studente,  sul vapore “M.Cristina” noleggiato dalla principessa Cristina di Belgioioso per correre in aiuto dei lombardi a Curtatone (29 maggio ’48), dove morirà Leopoldo Pilla e lui rimarrà ferito. Da allora si distingue su molti campi di battaglia,  e quando rientra a Mirabello S., pur se schedato come attendibile, e vessato (persino per l’inno politico Italia di oggi composto da giovane), non rinuncia alla sua azione patriottica. Si laurea in legge e lettere, esercita l’avvocatura a Campobasso, nello stesso tempo rafforza i contatti con i gruppi liberali molisani, si lega d’amicizia con Nicola De Luca e aderisce al comitato fondato da Giuseppe Demarco di Paupisi. Il 30 agosto ’60, quando Garibaldi proclama la dittatura a Napoli, De Feo innalza il tricolore sul castello Monforte. Non posso dilungarmi sulla fase successiva, costellata di battaglie ma anche di divergenze con il colonnello dei cacciatori del Vesuvio Teodoro Pateras riguardanti la conduzione delle operazioni militari nel momento più critico della reazione filo borbonica; sta di fatto che Vittorio Emanuele II, il 24 ottobre ‘60 a Venafro, riceve Francesco, nominandolo sottintendente di Isernia (De Luca è confermato sottogov. del Molise). Da questo momento, De Feo si impegna nella lotta al brigantaggio, come sottoprefetto e prefetto, divenendo ad appena 45 anni il più giovane prefetto d’Italia. Per la sua abnegazione e la prontezza delle sue iniziative ottiene promozioni e riconoscimenti di grande prestigio.
Ma con i briganti aveva avuto a che fare in più riprese l’audace e ambizioso albanese di Portocannone Nicola Campofreda (1794-1873), la prima volta quando gli uccisero il padre Nazario in una imboscata, e poi quando ebbe dal governo l’incarico di stanarli: dopo una serie di agguati e vendette la banda Vardarelli è distrutta nel 1818. Impetuoso e ribelle, Nicola aveva conquistato una grande influenza nel proprio territorio, e fin dal 1820 è segnalato alle autorità quale uomo facinoroso per indole; nel ’28 conosce le carceri di  Castel dell’Ovo perché accusato di complicità con i rivoltosi del Cilento, ma nondimeno gli vengono assegnati diversi incarichi governativi, forse anche per “tenerlo attaccato alla causa dell’ordine”. In realtà mentre a parole si dichiara fedele alla Corona, nei fatti intreccia rapporti con i patrioti napoletani, abruzzesi e molisani (Dragonetti, Piersilvestro Leopardi, Carlo Poerio, Silvio Spaventa, Nicolangelo Petitti , Giacomo De Santis)  e per questo ha dato qualche pensiero agli storici. Nel settembre ’47 mette in piedi un movimento insurrezionale che finisce con gli interrogatori di Nicola da parte della polizia e con l’arresto dei figli Luigi e Achille. L’anno successivo, giugno ’48, prende parte alla cospirazione di Casacalenda (il comitato di Larino discuteva dell’assalto alle truppe borboniche di ritorno dalla Lombardia) in cui risultano imputati Nicola e Achille. Il 4 sett. ’60, convinto dai patrioti napoletani a promuovere l’insurrezione nel Molise, Nicola, benché ormai 66enne, muove da Portocannone con Luigi e Achille, valenti tiratori a cavallo, a capo di una colonna che si va ingrossando via via che si avvicina alla città. Qualche giorno dopo il neogovernatore De Luca invia a Isernia i Campofreda e i 200 volontari da loro radunati, ma affida il comando al commissario politico, medico Giacomo De Santis. L’affronto subito viene attutito dalla lettera inviata il I ott. da Garibaldi a Nicola e Achille in cui li autorizza a chiamare i cittadini alle armi e fa conto sulla loro energia e sul loro patriottismo. E tutti i Campofreda prendono parte attiva ai fatti d’arme dell’autunno ’60. In particolare, il 4 ott. Luigi, capitano come Achille, ma anche uomo di cultura, che ha lasciato diversi scritti, tra cui Cenno storico-politico (1861, sostanzialmente pamphlet contro Nicola De Luca), prende d’assalto Isernia con i suoi volontari albanesi nelle prime file, mentre Achille, che è il primogenito, è l’eroe di Pettorano “per l’indomito coraggio mostrato durante il tragico attacco 17 ott. a Carpinone e Pettorano nel corso del quale riesce anche a salvare i suoi dal massacro”.
 La disfatta del 17 ott.’60 è anche il nodo a cui è legato il nome di Girolamo Pallotta (1804- 1866)di Bojano. Quest’avvocato, nato in un ambiente culturalmente aperto, era stato convinto fautore delle riforme vòlte a migliorare le misere condizioni del popolo, amministratore  attento e sensibile; ma da riformatore era diventato rivoluzionario quando nel ‘48 aveva perso fiducia nel sovrano borbonico.
Pallotta  il 5 sett. ’60 – prima ancora di Napoli- aveva dichiarato l’adesione di Bojano alla monarchia sabauda, proclamandosi pro-dittatore del nuovo governo provvisorio; poi, temendo la reazione delle truppe regie appostate sulla consolare per Isernia,  dimessosi da pro-dittatore (nelle mani del neo-governatore De Luca), era corso da Garibaldi a Caserta per chiedere rinforzi ai suoi 3000 volontari previsti,  rinforzi che ottenne solo grazie alla sua tenacia. Purtroppo, c’è da dire che aveva sopravvalutato lo spirito patriottico dei suoi conterranei, che mancarono all’appello – arrivarono solo venti uomini con un sergente e  un caporale- eccezion fatta per i duecento volontari albanesi dei Campopfreda. A tale proposito Domizio Tagliaferri  rammenta che l’ordine impartito da Garibaldi al colonnello Nullo  era di non attaccare  prima dell’arrivo dei piemontesi di Cialdini, previsto per il 20 ott., ma il colonnello Nullo, disobbedendo, attacca andando incontro alla disfatta, della quale A. Mario, per motivi ideologici (era fiero repubblicano), getta la croce addosso al gentiluomo di Bojano(favorevole alla monarchia sabauda), per aver “ingannato”Garibaldi ventilando la presenza di volontari mai arrivati. Ma il giudizio severo di A.Mario era anche dettato dalla contrarietà per essere stato allontanato dall’amato generale Garibaldi  allo scopo di “dare la caccia a qualche cafone  infellonito” con Francesco Nullo, Emilio Zasio e Caldesi, che avrebbero preferito correre all’assalto di Capua con Garibaldi.
Concludendo, direi che una felice confluenza di eventi, energie e volontà ha fatto sì che questi nostri patrioti, pur così diversi per temperamento ed estrazione sociale, abbiano dato il meglio di sé in un momento di svolta epocale per la nostra Storia Nazionale.
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1 commento:

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