Uscito in italiano nel 2000 per i tipi della
Fazi editore, il romanzo “Il fratello
italiano”(“Where she has gone) dello scrittore canadese Nino Ricci, nato a
Leamington (Ontario) nel 1958 da contadini lì emigrati da un paesino del
Molise, è il terzo di una trilogia tradotta
da Gabriella Jacobucci (“Vite dei santi” Lives of the saints, 1990; “In una
casa di vetro” In a glass house, 1997) che lo ha imposto all’attenzione della
critica mondiale.
Il tema è quello dell’emigrazione, ma nessuno
dei tre romanzi ne rappresenta una
nostalgica cronaca, poiché ognuno di
essi, nello scorrere della narrazione, analizza e descrive con una scrittura di
grande spessore e vigore espressivo il disagio
del protagonista Vittorio Innocente (Victor). Approdato da bambino in Canada -
per congiungersi con il padre Mario - dopo una drammatica traversata in nave
durante la quale la madre Cristina era morta di parto lasciandogli la neonata, Victor
vive nel nuovo mondo una condizione di solitudine profonda.
Non
soltanto perché non si intenderà mai con il padre, che non accetterà né il
tradimento della moglie né la piccola
bastarda e finirà suicida - ma perché si sente sradicato, avvolto in una specie
di limbo, senza un suo passato né un futuro. Estraneo tanto al nuovo mondo
quanto a quello vecchio che si è lasciato alle spalle.
In
perenne crisi d’identità, Victor vive dunque la sua doppia condizione con un
subdolo, distruttivo senso di alienazione
rappresentata da Ricci con minuziosa cesellatura.
Il legame di protezione viscerale che il
protagonista prova per la sorellina Rita, nata su quella nave e poi adottata da
una famiglia, si rivela attraversato da oscure pulsioni sessuali che lo
sconvolgono distruggendogli la vita.
L’ambiguo,
abissale sentimento di amore /attrazione/perdita che allontana e calamita i due
fratelli in un gioco psicologico estenuante è descritto e analizzato con rara finezza
psicologia dallo scrittore, che riesce a esprimere magistralmente il sotteso subbuglio
interiore grazie a un profondo scavo introspettivo, che strato dopo strato
arriva fino alla radice dell’oscuro legame.
Non c’è comunicazione, tra i due fratelli, che
sono - tra di loro e nel rapporto con gli altri — isole senza
ponti, trattenuti nello slancio da un eccesso di riserbo. E i dialoghi sono
scarni, vi galleggiano frammenti di pensieri, vi prevale il non-detto.
Quando,
in preda al più devastante senso di vuoto e di perdita, Victor, in cerca di
risposte, decide di partire per l’Italia alla volta del suo paesino sperduto
sull’Appennino, trova anche lì freddezza, estraniamento. I pochi frammenti di
memoria che gli vengono a galla non combaciano quasi mai con ambienti e oggetti,
pur se rimasti intatti in tutti quegli anni. Neanche i racconti dei testimoni dei
fatti passati collimano con le storie come lui le aveva impresse, e “ogni volta
che i suoi ricordi vengono smentiti è come se una parte di sé fosse strappata
via” (p.181). Pare dunque che ci siano
diverse “possibilità di realtà”.
Allora memoria e immaginazione sono ricordo e
illusione del passato e magari danno la possibilità di riscrivere la realtà.
Alla
fine del romanzo troviamo Victor in un’isola della Nigeria.
Mentre,
in uno stato onirico, osserva la luna, i suoi riflessi sul mare, le barche, i
falò dei pescatori, gli vengono a mente i falò che illuminavano la notte nella
valle del suo paese quando era bambino.
Realtà,
sogno, oppure memoria?
Quello
che importa — sembra suggerire in definitiva Ricci — non è tanto la realtà dei fatti, ma quello che del
passato rimane, le nostre memorie intatte, seppure irreali.
Rita Frattolillo
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