Pubblichiamo qui – in una
rielaborazione curata dall’Autrice stessa
̶ lo stralcio di un capitolo della Tesi di
Laurea
di Mariella Di Brigida: “Geografie di confine. Giose Rimanelli e la
ricerca dell’identità”( Chieti 2013).
Tra gli innumerevoli studi sullo
Scrittore pubblicati negli anni, questo ci offre la straordinaria occasione di
leggere per la prima volta i taccuini di Giose conservati presso l'Archivio di Stato di Campobasso.
Colpiscono, oggi, alcune sue riflessioni sulla morte.
Colpiscono, oggi, alcune sue riflessioni sulla morte.
***
“Un’isola non è una terra, ma un semplice approdo” - Dai taccuini inediti di Giose Rimanelli
Dopo il viaggio di sola andata verso gli Stati Uniti, Giose
Rimanelli sperimenta la scrittura diaristica. Una scrittura intima alla quale
affida la cronaca delle vicende della sua vita con registrazioni di
viaggi, notizie private e familiari, impegni lavorativi, ma soprattutto
emozioni, amori, entusiasmi, inquietudini e delusioni.
Scritti fra il 1960,
anno in cui sceglie l’esilio newyorchese, e i primi anni Settanta, i taccuini,
di cui qui si riporta qualche breve stralcio, raccontano dell’uomo, del bisogno
di sanare i dissidi interni. La paura della morte, il viaggio, la lontananza, l'emigrazione,
la ricerca dell'identità entrano a buon diritto nelle pagine diaristiche perché
tematiche irrinunciabili nella sua indagine artistica e umana. Dopo la
rivoluzione positivista operata da Zola e continuata in Italia con D’Annunzio
che la ha portata verso altri esiti, il taccuino si afferma come uno strumento
incredibile e necessario a dissotterrare i tesori nascosti nelle pieghe
dell’anima, tesori che le opere edite solo in parte possono rivelare.
Rimanelli
giunto nella metropoli americana, si getta nella scrittura che diventa la sua
unica casa: “New York è città di gente sola” - scriverà; non c'è spazio per la solidarietà
umana, il conforto:
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Questa città non è fatta per morirci eppure la morte arriva
con le sirene. È qualcosa che non interessa nessuno, e non dà dolore. Solo la
città è la stessa. La gente vi arriva ad ondate. E come le onde scivola sull'
arsenale e si ritira, riassalita dal mare. Solo la città è immutabile.
Costruita sulla roccia è un'isola col vuoto intorno. È assurda, precaria, instabile, così
alta, così cupa, idolo antico o futuro - che si squama come i sapienti, ad ogni
stagione, e ciò nonostante è sempre la stessa nei suoi mutamenti. È l'unica
cosa concreta, questa città. L'uomo è un topo notturno, qui, illuminato dalle
luci della città. È un topo serio, testardo, pratico. È un pazzo topo, un insano
topo. Con la città solo l'amore è vero. L'amore di due corpi sospesi in una
stanza all' ultimo piano. Non ci sono radici. Noi europei abbiamo conosciuto la
terra, e le nostre case sono fatte per il bisogno dell'uomo. Anche a un terzo
piano noi ci sentiamo coi piedi in terra. Qui vivi nel vuoto, nelle astronavi.
La terra non c'è più. Un'isola non è una terra, ma un semplice approdo. E così
l'uomo è morto, solo la sua scorza di topo si muove. Solo la città è vera nella
sua irrealtà. Solo l'amore è vero, nel suo desiderio di riconquistare la terra
perduta. (S.D)
Nella discontinuità
della vita vissuta “a singhiozzi” è racchiuso un sentimento nuovo che conduce
ad un'idea distorta di tempo, minacciato dal vivere alla giornata, dal godere del
qui e ora senza aspettative e speranze future. Rimanelli riflette sull'arte
contemporanea, un'arte per se stessi, come mezzo per scacciare la Noia del
presente, le angosce del passato, la condanna del futuro.
La paura della morte cosmica, la morte universale, ci ha
completamente invasi e non riesce neanche mai a lasciarci. E questo sentimento
nuovo e inafferrabile che è nella vita - e nella morte- ci ha forse indirizzati
verso un'idea distorta di tempo. Il vecchio concetto - “hai tutta una vita
davanti a te „ oppure “hai tutto il tempo della tua vita „ – è andato distrutto
man mano che le bombe terribili si andarono andavano costruendo ogni giorno in
quasi ogni paese. Adesso, abbiamo ancora qualche giorno per la vita - incerta,
insicura, una vita a singhiozzo - e non pensare altrimenti. Arriva a pensare
addirittura che le guerre e l'insicurezza d' una vita lunga e tranquilla
abbiano creato una sorta di dicotomia mostruosa: nel momento stesso in cui
vogliamo creare, o vogliamo vivere, ci accorgiamo che è inutile fare, inutile
dire - perché tutto è condannato. Gli artisti sembra appunto che abbiano paura
della loro arte, che non sarà preservata – e dunque fanno e fanno ma non per il
futuro, per i tempi che verranno - ma per oggi e per ora, in fretta, con la
febbre addosso, unicamente per sentirsi vivi oggi e ora. Il desiderio di creare
è minacciato dalla morte. Quando io dico creare dico tempo, generazioni - e
penso ai faraoni o ai pittori di Papa Leone. Perché niente nasce qui e ora, se
qui e ora non c'è la presenza di domani. I tuoi artisti - tu anche- si sono
compromessi. Non avendo il tempo di finire non si ha nemmeno il tempo di
incominciare ed ecco che di un'opera, un quadro, non vive altro che di un
'ansia, o il ricordo di un incubo Te l'ho detto - voglio capire prima di amare.
E capire è conoscenza. Se non si ha il tempo per questo non si ha il tempo per
le grandi cose - i grandi amore - e tutto si riduce a una funzione mediocre e
febbrile. Non voglio amarti con la febbre, non voglio vivere con la febbre. Ma
se tutto questo mi accadrà, allora vorrà dire che non sono più io - io sono già
morta vorrà dire. [In riferimento a un pomeriggio al Guggenheim con una giovane
ragazza]
Nell'inganno
che la vita americana offre, egli sperimenta a pieno la precarietà dell'esistenza,
di chi avrebbe bisogno di una sistemazione definitiva e vive invece come uno
studente, nauseato dal mondo e da se stesso:
24, domenica
A New York per dinner in casa De Luca, in Brooklyn.
[...]Brutta notte. È la seconda volta che dormo in questo letto da studente, e
che ho l'impressione di essere disteso con i piedi in aria, contro la finestra
di vetro, e la testa in giù. Improvvisamente, quando il sonno sta per venire,
arriva un intollerabile formicolio nelle dita. Debbo saltare in piedi per farlo
smettere. Ma ormai il sonno è sparito di colpo, e ho l'impressione di essere
sporco. Vado alla finestra e guardo il bosco. Dove sono, ora, gli scoiattoli
del giorno? Dormono nelle pieghe dei rami, mi dice Dorothy Starling.
E ancora:
6 maggio 1962
Io credo di
essermi disseccato. Perché mi sono perduto. Anche questo amore (questi amori)
non hanno rinnovato il dolore, l'hanno fatto semplicemente più cupo, quasi atono
- ed io non me lo porto più con me perché mi cammina accanto ormai, come un compagno
cieco - e costante.
Il senso, il senso
di tutto questo- trasferirlo in immagini, in ritmo, in twist, in parole. Ma chi
crede più alle parole? [...]
Confidando
in un riposo dell'anima, Rimanelli nel settembre '62, quando ha già concluso in
Messico le pratiche per il divorzio dalla prima moglie, torna a Roma e affida
le impressioni del rientro ad un taccuino brevissimo in cui è racchiuso tutto
il senso della sua ricerca e del suo vagare incessante.
Roma 1 sett, 1962
Frank a Fiumicino. Anche sua moglie a Roma. Dice che resterà
in Italia.
Io no. Sempre straniero.
Sembrano figurini: puliti, ricchi, svelti, più duttili.
Benessere. Voglio ancora mostrare. E trovano i soldi per farlo. Tre anni fa era
diverso; ancora ansiosi e incerti. Ora sono arrivati i mie ex amici.
Non mi trovo bene. Troppo caldo umido. E sono forestiero.
Vorrei parlare con tutti: ma sono ironici. Ancora risento, e mi chiudo, mi
offendo.
Ancora Piazza del Popolo, Sono rimasti là, ancorati alle
sedie. Loro e i camerieri, sempre gli stessi. Ma parlano meglio, perché
spendono di più.
In pratica sto con i Donovan. E Lina è quella di prima: ma
frustrata, scontenta, che si dimentica col sesso! Pare che vivere non sia necessario.
Pare che sia una calamità e una fatalità. Il sesso
interrompe la vita, crea un passaggio strano con l'ignoto. E Lina vorrebbe
vivere sempre in quell' ignoto.
Siamo di sinistra. Ma qui ci giocano, come sempre. E perciò
tutto viene fatto per qui ed ora. Il caffè esisterà sempre è immortale.
Le generose esplosioni. Le insonnie. Le notti nella piazza.
La puttana di prima. Non m'importa se questa città si chiama Roma.
Me ne vado come se non fossi venuto. E volevo una
riconciliazione.
La sola illusione di un
cantuccio nella terra dei suoi padri aveva assicurato valore autentico ad un
momento lirico e personale di restringimento d'orizzonte in cui le uniche
epifanie possibili sembravano quelle semplici del mondo contadino.
I
venti di sud-est recheranno ora le tue ceneri nel porto sicuro della tua terra
natia e canteranno nenie di una tristezza lieve.
Mariella Di Brigida
Mariella Di Brigida©2018 Tutti i diritti riservati
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