Tra coloro che giorni
fa hanno rivisto su La 7 il film Il MEDICO DELLA MUTUA, con Alberto Sordi, una
fortunata commedia all'italiana della fine degli anni ‘60, molti forse non
sanno che l'autore del romanzo dal quale il film fu tratto era Giuseppe D'Agata, un noto scrittore di
origine molisana. Mi è tornata in mente l'intervista che gli feci anni fa
durante una delle sue rare visite in Molise e nel frattempo ho scoperto, con
grande dispiacere, che è scomparso nel 2011. Ragione di più per ricordarlo e
farvelo conoscere attraverso quanto lui stesso mi raccontò in quell' intervista
(Il Ponte, 2000).
G.I
IL FIGLIO DEL TIPOGRAFO
di Gabriella Iacobucci
Chi non conosce il film Il medico della mutua, con Alberto
Sordi? Una satira di costume che ha segnato un periodo del nostro cinema. Ma
pochi sanno, forse che l’autore del romanzo da cui fu tratto il fortunato
soggetto del fil è uno scrittore di origine molisana, Giuseppe D’Agata. Il
padre Nicola, infatti era un tipografo di Guglionesi che lavorava nella
Tipografia Carunchio, allora in un locale a pianterreno del Palazzo Ducale di
Guglionesi, la madre si chiamava Angiolina Rezza.
Giuseppe D’Agata, che vive a
Bologna ̶ è anche presidente
dell’Associazione Scrittori di Bologna ̶
dopo Il medico della mutua, Feltrinelli 1964, ha scritto molti altri
romanzi di successo pubblicati ancora da Feltrinelli, da Cappelli, Bompiani…
Tra gli ultimi Il segno del comando,
edito da Rusconi nel 1987, e Il ritorno
dei Templari, edito dalla Newton Compton nel 1997.
Alla fine del settembre scorso è stato
invitato a Termoli dal Lion Club Tifernus, che ha organizzato una proiezione
del film Il medico della mutua e
consegnato allo Scrittore un premio.
E’ stata l’occasione per fargli alcune
domande.
D. I
suoi genitori sono di Guglionesi, ma lei è nato a Bologna. Come mai?
R. Per caso, forse.
Mio padre viveva a Guglionesi e si era sposato da poco. Era un tipografo, un
bravo compositore, pare, tanto che ebbe la richiesta di andare a lavorare a
Bologna, presso un grande stabilimento tipografico dove si stampavano giornali
e libri. Lui accettò e si trasferì. Era gennaio. Pochi giorni dopo ̶ i miei abitavano in
una camera ammobiliata nel cuore di Bologna
̶ sono nato io. Ho sempre sospettato che mio
padre, un molisano irrequieto, avesse tutto calcolato per farmi nascere a
Bologna: insomma per darmi un vantaggio nella vita. E poi, non so, lui
compositore di libri e io scrittore, autore di libri… C’era una sorta di legame
che andava oltre la parentela tra padre e figlio. Ma non voglio parlare di
predestinazione. E’ vero però che da
ragazzino andavo a trovarlo e mi incantavo a vederlo lavorare. Tanto che
imparai a leggere sul piombo le righe con i caratteri rovesciati che li
componeva e lasciava sul bancone pronte per essere stampate.
D.
Che ricordi ha di Guglionesi?
R. A Guglionesi ho
soggiornato per periodi più o meno lunghi, sempre d’estate, fra gli anni
quaranta e cinquanta. I ricordi ancora vivi sono i saluti e gli abbracci con i
parenti e gli amici che emigravano, andavano in Canada e negli Stati Uniti.
Avevo la sensazione che fossero delle partenze senza ritorno, anche se il
distacco era mitigato dalla convinzione ̶
soprattutto da parte di chi se ne andava
̶ che oltreoceano li attendesse
una vita migliore. E ricordo il paese arcaico immerso nella campagna, con le
processioni per il santo patrono e l’acqua che dovevamo risparmiare perché
arrivava da fuori: arrivava nelle botticelle caricate sui muli. E il rispetto e
la curiosità che mi circondavano. Io ero un ragazzo di città, un caso raro
perché capivo il dialetto ma non lo sapevo parlare.
D. Adesso ci torna,
qualche volta? Come trova, ora, Guglionesi?
R. Torno a Guglionesi ogni volta che
posso, poco per quanto vorrei. Per fortuna sono ospite di un amico sensibile e
colto. Nella sua bella e grande casa trovo la quiete e il tempo rallentato di
quando la vita, la mia e quella dei luoghi che mi sono cari, aveva il sentore
dell’eternità. Il paese si è ingrandito, anzi si è allargato, e al di là del
centro storico ha assunto l’aspetto di una cittadina. La periferia non la conosco,
perciò, passando in macchina per le nuove strade, mi viene da pensare che
potrei anche perdermi come se fossi un forestiero. In realtà sono diventato
forestiero. Rimango sempre colpito dall’evoluzione dei costumi e degli stili di
vita, evidente soprattutto nei giovani. I ragazzi non sono tanto diversi da
quelli di Bologna o di Roma.
D. lei si sente un po’
molisano? E, se sì, in che cosa?
R. Mi sono sempre sentito un po’
molisano e non solo perché i miei genitori in casa parlavano sempre il
dialetto. Del molisano, per lo meno del modello che mi sono fatto con gli
amici, credo di avere alcuni aspetti del carattere: per esempio orgoglio e
riserbo. Da ragazzo ero timido e avevo un certo pudore dei sentimenti.
D. Cosa la spinse a
scrivere il romanzo “Il medico della mutua?”
R. In effetti quel romanzo l’ho scritto
sotto la spinta di un sentimento forte: l’indignazione e di una disillusione
amara. Avevo studiato medicina con molta
convinzione e applicazione e dopo la laurea mi ero trovato di fronte a una
realtà che nemmeno lontanamente immaginavo. Parlo della cosiddetta medicina
mutualistica, ovvero dell’esercizio della professione secondo un’ottica del
tutto distorta e sballata. La materia prima per le mie tristi riflessioni la
trovai quando un’estate accettai di sostituire dei colleghi che erano andati in
ferie. Scrivevo già: tre anni prima avevo pubblicato un romanzo, L’esercito di Scipione, la mia opera prima,
dunque conoscevo le tecniche della narrazione. Dopo quell’esperienza
“mutualistica” dal vivo, nel settembre del ’63 mi misi a scrivere Il medico della mutua. E lo scrissi in
quaranta giorni, con poche cancellature, come se qualcuno me lo dettasse. Forse
era Ippocrate, il dio della medicina, che si vendicava attraverso me.
D. Nel film si vedevano
medici che andavano a caccia di mutuati, che visitavano i pazienti per
telefono… Era vero?
R. Purtroppo. E gli episodi e gli
aneddoti satirici che conoscevo o mi erano capitati erano più numerosi. Ma non volevo fare un’antologia. Volevo
soltanto denunciare una realtà per me inaccettabile.
D.
Pensa che quel film sia ancora attuale?
R. Partiamo dal
romanzo, di cui il film ricalca la sostanza privilegiando la comicità rispetto
alla satira. Nella maggior parte i
medici sono, per fortuna, dei professionisti onesti e capaci e io non ho voluto
né generalizzare né sferrare un attacco indiscriminato contro la categoria.
Credo che il film, come il libro, sia ancora attuale soprattutto nella descrizione
dell’arrivismo, una piaga caratteristica del nostro tempo. L’etica perversa del successo, ottenuto ad
ogni costo e valutato col metro del denaro è più che mai l’indice di uno
squilibrio sociale grave, di un problema che non può certo essere sanato dalla
letteratura o dal cinema.
D. Conosce
scrittori molisani?
R. Senza
dimenticare Jovine, che è un narratore importante della prima metà del ‘900,
anni fa ho conosciuto di persona Giose Rimanelli, lo scrittore di Casacalenda
che da anni risiede a New York. Il suo Tiro al piccione è senza dubbio un
ottimo romanzo. Di recente ho potuto apprezzare delle poesie e delle prose di
Antonio D’Alfonso, uno scrittore ed editore che vive a Toronto ed è originario
proprio di Guglionesi. Ma non sono abbastanza informato, specie p3er quanto
riguarda la poesia.
D.
Cosa pensa del Molise oggi, e quale futuro vede per questa regione?
R. Da molto tempo
ho notato l’assenza del Molise dalle cronache nazionali, e in particolare mi fa
piacere che machi dalla cronache della violenza e del crimine. Eppure il Molise confina con due regioni, la
Puglia e la Campania, dalle quali la cronaca nera attinge parecchio. Se la criminalità. in tutte le sue
manifestazioni, da quella comune a quella politico-amministrativa, attecchisce
poco o per niente, vuol dire che la regione, nel suo complesso, è
fondamentalmente sana. Vuol dire che vi sono una mitezza di fondo e un rispetto
della convivenza che provengono da una civiltà antica e consolidata. Se così
stanno le cose, è possibile prevedere uno sviluppo quieto ed equilibrato. Il
Molise non sarà mai una regione alla moda, un territorio di speculazioni
selvagge e repentini arricchimenti. Non
ne ha la vocazione. Ed è meglio così. Personalmente ci vivrei. Non lo faccio perché
oramai la mia vita è condizionata da una serie di rapporti, di lavoro e
familiari, di consuetudini e di abitudini che non mi consentono più dei
cambiamenti radicali.
D.
Se oggi dovesse scrivere un romanzo ispirandosi al mondo della sanità italiana,
che titolo gli darebbe?
R. Non sento la
necessità di scrivere un altro romanzo sul mondo della sanità. Più volte me lo
hanno chiesto e mi sono sempre rifiutato di farlo. §Sarebbe una smaccata
speculazione, estranea all’idea che io ho della letteratura, un’idea di libertà
e di purezza. La medicina mi ha tradito e io mi sono rifugiato nella
letteratura. Perché mai dovrei tradire proprio la letteratura?
Gabriella Iacobucci©Tutti i diritti riservati
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