mercoledì 11 febbraio 2009

Filo diretto con Marco Micone

Addolorata, pièce teatraleMarco Micone risponde alla domanda posta a tutti gli scrittori: Qual è stato il motivo, la lettura, l’incontro, che ti ha fatto capire, per la prima volta, che avresti deciso di dedicarti alla scrittura?

Ma poiché la sua replica è articolata e coinvolge il suo vissuto prima e dopo la sua emigrazione in Canada, ha preferito dare un titolo diverso al suo commento-saggio. Commento che analizza in particolare anche la sua opera di traduttore e commediografo.

Molise d’Autore lo ringrazia per questa importante testimonianza.



(La traduzione del testo è di Anna Moffa)





Scrivere e tradurre tra due lingue e due culture



Ho passato la mia infanzia nel Sud rurale dell’Italia colonizzata e impoverita dal Nord industrializzato. Le invettive razziste indirizzate ai terroni meridionali avevano lo scopo di attribuire a noi la nostra inferiorità sociale ed economica. Per lungo tempo mi sono vergognato del mio dialetto: la mia lingua materna. L’accento sibilante della Padania mi sembrava molto più bello della mia parlata a scatti. Quando ho capito che la mia situazione linguistica era analoga a quella dei francofoni del Québec, mi sono unito alla loro lotta. La difesa del francese si è così sostituita a quella del mio dialetto.



Per lungo tempo ho avuto paura delle parole. Ho iniziato ad avere paura di non comprenderle, poi di non averne a sufficienza prima di farle mie, di macinarle, di inventarne e di goderne fino a tradirle.

La paura di non comprenderle è cominciata molto presto, alle scuole elementari. Fui stupito che lì non m’ insegnassero le parole che utilizzavo tutti i giorni tenendo conto che coloro che l’avevano frequentata non parlavano diversamente dagli altri. Dall’inizio del secondo anno, il maestro ci obbligò a comprare un taccuino nero nel quale dovevamo annotare tutte le parole dialettali utilizzate in classe e trovarne il corrispettivo italiano. Il compito ci era sembrato così arduo che dopo qualche settimana eravamo diventati tutti afasici. Questo fu il mio primo dizionario. Non ho conservato questo mio primo quaderno, ma ho conservato l’abitudine di annotare delle parole in un taccuino dello stesso colore.

Alla fine delle elementari, mi sono ritrovato convittore in un seminario minore, lontano da casa mia, dove la repressione contro l’uso del dialetto era di una rara efficacia. Appena alzati, uno dei preti sorveglianti andava a caccia del primo colpevole e gli consegnava discretamente una chiave che costui si premurava di nascondere nella propria tasca partendo immediatamente alla ricerca di un altro trasgressore, e così di seguito fino all’ora di andare a dormire. L’ultimo possessore della chiave la utilizzava per entrare in una stanza ed auto-punirsi copiando due pagine del dizionario Garzanti.

Ma la paura fece posto al panico quando mi ritrovai, l’anno seguente, in una scuola francese di Montréal. Il primo giorno, sono tornato a casa con una lista di parole che dovevo imparare a compitare. Una sola occupò la mia mente tanto mi sembrava strana. Ripetei centinaia di volte BE A OU CO OUP credendo che fosse la pronuncia esatta. Il giorno dopo, non riconoscendo la parola così come pronunciata dal professore, me la sono presa con mio padre per essere emigrato e con mia madre per aver creduto che io avessi bisogno di lui.

A lungo ho avuto anche paura di non avere parole a sufficienza. Dopo aver frequentato una scuola francese per due anni, i miei genitori mi iscrissero ad una scuola media inglese. 


 Le classi di accoglienza non esistevano ancora. Io restai per giorni seduto in aula, senza capire nulla, aspettando la fine delle lezioni per ritrovare i miei amici italiani in palestra o sui campi di gioco. Ho atteso settimane prima di porre la prima domanda dopo averla ripetuta decine di volte nella mia testa. Ho avuto subito il presentimento che non sarei mai riuscito ad avere la padronanza di questa lingua tanto mi sembrava differente dall’italiano. Alla scuola francese, avevo rapidamente afferrato le corrispondenze tra il francese e l’italiano. Riconoscevo facilmente le radici comuni e le somiglianze sintattiche e grammaticali. Avevo l’impressione che imparando il francese rimanessi su di un terreno conosciuto, attingendo alla stessa fonte di quella dell’italiano e che con il tempo sarei riuscito ad appropriarmene correttamente, mentre l’apprendimento dell’inglese mi era apparso come un’impresa titanica, insormontabile. Non trovavo nessuna logica né nella sintassi, né nell’ortografia e ancora meno nella pronuncia. Alcune parole mi sono sembrate così strane che non solo ricordo la prima volta che le ho sentite in classe, ma non ho mai dimenticato coloro che le hanno dette. Così posso ancora citare i nomi dei miei compagni che hanno pronunciato per la prima volta davanti a me flabbergasted, extracurricular, spooky, etc. C’è voluto del tempo per capire che la ragione principale, per la quale sono uscito da questa high school con una conoscenza approssimativa dell’inglese, non era dovuta alla sua complessità intrinseca ( che non è maggiore di quella del francese o dell’italiano) ma per il metodo e per le condizioni del suo insegnamento. Sarebbe stato sorprendente che io fossi riuscito ad apprendere la lingua di Shakespeare dopo quattro anni di high school ascoltandola solo in classe ( dal momento che non facevo che udirla), poiché fuori io parlavo unicamente l’italiano ed il francese. La paura di non avere abbastanza parole mi farà abbandonare la scuola inglese.

Avendo iniziato gli studi di letteratura francese, questa stessa paura mi spinse a riprendere l’abitudine di annotarne in un quaderno di colore nero. Il mio primo dizionario Larousse appena comprato era troppo generico. Avevo bisogno di una mia personale lista di parole che spigolavo sul filo delle mie letture eclettiche. Ero alla ricerca di termini rari che avrei eventualmente utilizzato per dimostrare che mi ero affrancato dalla mia originaria afasia ed ignoranza. Ho preso allora l’abitudine di leggere il dizionario e di annotare le parole degne nel mio quaderno nero. Quando ho deciso di scrivere delle opere teatrali sugli immigrati italiani, ho scoperto che quelle che collezionavo non mi erano di alcuna utilità. Il problema da risolvere era il seguente: come far parlare, per un pubblico francofono, degli immigrati di origine italiana, di condizioni modeste, poco scolarizzati e che parlavano poco e male il francese? Decisi di utilizzare una lingua molto semplice mista all’italiano, per i personaggi adulti, e infarcita di inglese, per i personaggi giovani. Ho voluto così evocare, tanto in Gens du silence che in Addolorata, la diversità culturale della società quebecchese, ma anche la confusione linguistica che vi regnava prima della Legge 101.

Se ho iniziato a scrivere per il teatro è a causa della mia insicurezza riguardo al francese… insicurezza che era dovuta in gran parte alla situazione simile ad una Babele nella quale avevo vissuto nella mia adolescenza. Per quanto collezionassi parole, ero consapevole che la scrittura romanzesca e la traduzione letteraria richiedono una conoscenza approfondita di tutti gli aspetti della lingua, senza dimenticare quella della letteratura. Solo dopo aver pubblicato vari articoli nei giornali su argomenti di attualità e dopo aver scritto qualche opera teatrale, ho acquisito la sicurezza necessaria per scrivere un racconto e per tradurre delle opere del repertorio classico italiano.

Ho scritto per il teatro per regolare dei conti: contro la mia comunità, contro l’autorità paterna, contro il potere. Ho scritto spesso in disprezzo all’ esigenze dell’arte teatrale. E’ quando ho scritto  Le figuier enchanté che ho provato pienamente il piacere della scrittura: questa gioia inesplicabile di attingere nella memoria e nell’immaginario, d’inventare dei personaggi che non ci lasceranno più e grazie ai quali non saremo più soli, di immaginare o ricreare dei luoghi che abiteremo per sempre, di cercare di raggiungere la verità, la mia , che è un po’ anche quella degli altri: la verità dei sentimenti o quella che rende me, noi, umani, e che qualche volta è sepolta sotto tanta insincerità e codardia. Senza il quaderno nero, tuttavia, il piacere non sarebbe stato lo stesso. Nelle sue pagine ho trovato la parola abot con cui ho composto il titolo di uno dei capitoli, La femme aux abots. Amavo il gioco di parole. Amavo anche me, l’immigrato, l’idea di costringere i lettori francofoni a consultare il dizionario e a darmi ragione dopo aver pensato che io avessi torto. Ho ripetuto lo stratagemma con la parola exorde che molti lettori hanno senza dubbio creduto scritto in modo scorretto. In un libro che tratta dell’immigrazione ci si aspetta normalmente di trovare la parola exode, mentre aggiungendovi una r ho voluto indicare che era il capitolo iniziale del libro. I lettori del mio racconto hanno certamente consultato il vocabolario anche per èteules, lèmure e qualche altra stranezza. Quanto a amigré, névasse e ménéfréghiste: la prima parola è la parola valigia, la seconda, névasse (peggiorativo di neve, dal latino nix nivis, al quale ho aggiunto il suffisso asse), un neologismo che designa la sloche (non ho mai capito perché in un paese di neve non sia stato coniato un termine che non sia un anglicismo o una onomatopea), e l’ultimo, ménéfréghiste (menefreghista) è un italianismo che volendo richiama  la contaminazione subita dal francese quebecchese a contatto con lingue di immigrati.

Scrivere in un ambiente cosmopolita e plurilingue è scrivere tenendo conto delle altre culture e delle altre lingue. Essere plurilingue in un contesto cosmopolita significa constatare l’impossibilità di tradurre con una lingua sola la realtà complessa che ci circonda, ma anche trovarsi in una situazione di passaggio e di scambi continui tra due lingue. Sarebbe quella, tra lingue dove si afferra il meglio, una realtà che non cessa di trasformarsi? Non è l’essenza della traduzione e del traduttore situarsi tra due lingue?

Durante gli anni Novanta ho tradotto Pirandello, Goldoni, Gozzi e Schakespeare. Ognuna di queste traduzioni era una trasformazione del testo originale. Tra le numerose battute che ho aggiunto alla Bisbetica domata, vi era questa: “Petrucchio, perché siete così sicuro di poter sedurre Caterina?Perché, risponde lui, se io fossi una donna, è un uomo come me che sposerei.” Mentre la sala del TNM era scossa dalle risate, una spettatrice seduta accanto a me ha gridato: ma questo è Shakespeare!

L’anno seguente, alla presentazione del mio adattamento de La Serva amorosa di Goldoni, allo stesso teatro, c’era Markita Boies, mirabile Corallina, seduta a fianco a me in uno studio di Radio-Canada. Al giornalista che le chiedeva perché amasse tanto Goldoni, lei rispose che era per via di battute come questa: La nobiltà del vostro animo giustifica la casualità della mia nascita. Io ho allora immaginato uno spettatore che esclamava la sera della prima: questo è Goldoni! E’ questo che io chiamo il cavallo di Troia della traduzione.

Non si traduce un testo teatrale come si traduce una poesia o un romanzo. Per essere rappresentabile in scena, una traduzione teatrale deve essere il risultato di un lavoro drammaturgico e non solo linguistico. Il traduttore teatrale deve ricreare la totalità artistica, tener conto delle esigenze di scena e del gioco degli attori. Egli ne è il primo regista. Come interprete del testo originale, egli divide, però, questo compito con gli artigiani della scena che diventano tutti degli interpreti del testo da tradurre e da rappresentare, dei tramiti di una cultura che non sarà più la stessa alla fine. La traduzione è allo stesso tempo uno strumento critico e di conoscenza. Essa, inoltre, è uno spostamento che consente non solo un punto di vista altro sull’opera da tradurre, ma anche uno sguardo tra, come in tradire: dire tra (in italiano tra = entre): tra le parole, tra le lingue, tra le culture, tra gli immaginari. Traduzione come tensione, dunque, senza dimenticare quella mai risolta tra l’autore ed il traduttore.

Ogni traduzione è un adattamento. Una traduzione letterale o assolutamente fedele non esiste. Ci vorrebbe per questa una perfetta corrispondenza tra due lingue, due culture, due immaginari. Anche tra la sensibilità dell’autore e quella del traduttore. Nel caso di un testo di teatro classico, il traduttore è prima di tutto un lettore privilegiato che non deve esitare ad appropriarsene per renderlo adatto ad un lettore contemporaneo. “ Credere che un testo sia definitivo denota fede o…stanchezza”, dice Berman. Quello che conta in una traduzione è, più che  il suo valore riguardo all’opera originale, la sua nuova coerenza. Non bisogna neanche farsi terrorizzare dai classici. Quest’ultimi devono servirci …a comprendere il passato ed il presente. Da qui la libertà, se non l’obbligo, di adattare, di trasgredire fino a farne un Cavallo di Troia di idee il cui valore è decuplicato dal semplice fatto di essere attribuite ad un autore classico. E’ quello che ho fatto con i miei adattamenti. Tradurre dunque come tradire. Un traduttore servile è come un traghettatore di morti, dirà Meschonnic.

La traduzione deve anche avvicinarci all’altrove e allontanarci dal qui per relativizzare i nostri modi di vita e la nostra visione del mondo. Deve successivamente farci oscillare tra i due, nella ricerca infinita di un improbabile equilibrio.

Alla fine degli anni settanta, ho scritto Gens du silence. Ho voluto dare la parola ai senza voce, a coloro la cui lingua era quella del silenzio e dell’impotenza. Desideravo che gli spettatori di qualsiasi origine potessero riconoscersi in questi personaggi. Era necessario dunque che essi si esprimessero in francese per essere compresi dalla maggioranza, un francese popolare di grande semplicità, ma evitando il joual (ndr. dialetto del Québec a base di francese, fortemente contaminato dall’inglese), poiché questo era appannaggio dei francofoni. Qualche parola italiana che infarcisse i dialoghi ricordavano che Antonio, Anna ed Annunziata parlavano una lingua che non era la loro. I personaggi la parlavano come se essi s’esprimessero in italiano, perché lo scopo era di raccontare i sogni e i tormenti di questi sradicati senza fare del folklore. Il disorientamento individuale e collettivo era incarnato da Mario e dal suo gruppo di amici che mescolavano l’italiano, il francese e l’inglese. Una lingua tra le lingue.  Un linguaggio a immagine della società prima delle legge 101. Riscrivendo Gens du silence , venticinque anni dopo, ( prima in italiano, poi in francese) in un Québec dove il francese è diventato la lingua comune per la maggioranza della popolazione, ho fatto in modo che questi personaggi dai nomi italiani si esprimessero come dei francofoni perché questa lingua fosse al tempo stesso un modello e un simbolo.

Mi sono tradotto per meglio tradirmi. Perché la libertà di tradire non abbia dei limiti. Gens du silence è divenuto Non era per noi. Come raccontare l’emigrazione a dei lettori ( spettatori) residenti in Italia? Cambiare il titolo, il nome dei personaggi, le situazioni vissute da quest’ultimi, il tutto raccontando la stessa storia: l’impossibilità di vivere nel paese di origine, l’incontro con lo straniero, i sogni infranti, il disprezzo per gli umili e tutti questi silenzi: tra marito e moglie, tra padre e figli, tra la comunità di accoglienza e gli immigrati. Non avevo mai scritto in italiano. Sospettavo tuttavia che “ le parole della mia infanzia evocavano un mondo che le parole di qui non potevano afferrare”. Per la prima volta sentivo i personaggi parlare la loro lingua non la mia. Per la prima volta non ho cercato di spiegare le mie idee. I personaggi mi si sono imposti. Soprattutto Alberto: un personaggio in cerca d’autore. Io l’ascoltavo sognare una vita migliore, raccontare il dolore di lasciare sua moglie e sua figlia, prima di vederlo sprofondare nel degrado. Poi Giulia . Ella supplica suo marito di tornare prima che sia troppo tardi. Ma non si emigra impunemente. Sarà troppo tardi…subito.

Non era per noi è all’opposto di una traduzione letterale. Tuttavia non racconta cose diverse da Gens du silence . Ho tradotto il senso piuttosto che le parole. Un senso arricchito da anni di riflessione sulle due versioni, dalla convinzione che Alberto e Giulia fanno parte di una generazione sacrificata. “ Se l’emigrazione fosse una cosa buona, non la si sarebbe lasciata ai poveri”, pensano. I lettori (spettatori) italiani avranno un’immagine degli emigranti meno univoca, meno idealizzata, più vicina alla realtà. Una realtà né completamente di qui, né completamente di un altro luogo: tra due culture, due immaginari e almeno due lingue.

Non era per noi é divenuto Silences. Una ritraduzione che non esisterebbe senza la versione italiana in cui, per una volta tanto, vi è un adeguamento tra i miei personaggi e la loro lingua. Se la scrittura di Non era per noi mi ha permesso di riscoprire non solo il mio legame affettivo con la lingua italiana, ma il potere che questa esercita su di me, la scrittura di Silences ha dimostrato che, dietro al francese che io parlo e scrivo, c’è una lingua italiana che lo condiziona e lo nutre. E viceversa. Sarà che parlo, scrivo e traduco tra queste due lingue?



                                                                                                    Marco Micone

1 commento:

  1. Ho letto con indicibile coinvolgimento il saggio-confessione di Marco Micone, ho seguito passo passo, attraverso le sue parole, i travagli dell'inserimento e poi quelli della lenta integrazione, il racconto delle traversie linguistico-esistenziali, l'intelligente, laboriosa strada cognitiva ed esistenziale da lui intrapresa, infine la soddisfazione di sé, il successo. Certo, noncosta nulla, a noi rimasti in patria, applaudire Micone, come altri nostri corregionali che sono riusciti a farsi un nome grazie alla tenacia, alla profonda capacità di decifrazione dell'ambiente, grazie al loro talento, ma forse dovremmo meditare un pò sul buio che avvolge la massa anonima dei migranti di ogni colore ed estrazione. E chiederci quanti, pur avendo le doti, non trovano animo abbastanza per affermare le loro aspirazioni. Nel lungo e bellissimo saggio di Micone, attraversato da una sensibilità acutissima che ti prende completamente, mi hanno impressionato parecchio il percorso che lo ha condotto a dominare il mondo delle aprole, la complessità del processo della traduzione - di cui difficilmente ci si rende conto -l'esaltante sensazione da lui provata quando i personaggi gli si "sono imposti" la prima volta, infine la quieta consapevolezza del potere che la lingua italiana continua ad esercitare su uno dei "nostri" scrittori-commediografi. Grazie davvero, caro Micone, per queste discese nei suoi istruttivi pozzi artesiani....Rita Frattolillo

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