di Vincenzo Di Sabato
Affabile, mite, rispettoso; un uomo dalla corporatura robusta e dalle movenze leggiadre: un sentimentale! Accurato anche nel vestire, cravatta rigorosamente intrecciata sotto il colletto bianco; abito decente, stirato; il taglio dei capelli conforme alla rotondità del suo viso. Chiacchierando con amici, egli assumeva spesso il tratto tipicamente maschile: quello cioè della mano in tasca, così da far scendere morbidamente il lembo della giacca sul pantalone, mediante un guizzo di grazia civettuola. E, anche quando fumava, il gesto era misurato e dignitoso, come per un rito.
Ecco Francesco Jovine, il profeta
del Sud, così come oggi riaffiora dalla mia memoria bambina e da adolescente
quando egli era a Guardialfiera. É morto a 48 anni – assai prima del dovuto –
io allora di anni ne avevo 14. Lo ricordo come un gentiluomo moderato, cantore
struggente di scenari rustici e di contadini da lui amati e ricamati con
disadorna bellezza.
Immagine di MoliseCultura |
Raimondo Lafratta, indomito
ottantanovenne (mi porta quattro anni!), l’archeologo delle nostre radici, con trepidazione e inquietudine mi borbotta
stamani: “Beh, noi due siamo ormai gli ultimi sopravvissuti, siamo i rari
viventi ad aver conosciuto di persona don Ciccio (così denominato Jovine in
paese) siamo rimasti gli unici ad averlo frequentato e rispettato. Perciò,
Vincé alla tua delineatura, voglio aggiungere pure questo mio sprazzo: Ero il giovanissimo
barbiere a Guardia negli anni ’40, e il nostro ’Omero’, a giorni alterni, veniva a radersi da me. Ad
ogni taglio di barba, era solito estrarre dal taschino interno della giacca,
uno scatolino azzurro: la Leocrema, la bio-pomata rimodellante, da frizionargli
sulla pelle, sia per ammorbidirla dall’irritazione prodotta dalla rasatura, sia
per turare taluni pori affiorati sul suo viso. Minima e legittima vanità! E il
suo profumo intenso, perdurava per quasi un’ora all’interno del locale”.
Oggi come allora, io riconosco
Jovine nel maestro elementare di mia mamma, “l’uomo vissuto senza tradire ̶ ella
mi ripeteva ̶ talora screditato, essenzialmente credente
nello spiritualismo concreto, nella religiosità laica, nel pudore e nell’ansia
irrinunciabile del riscatto umano”.
Un soggetto passionale, caldo; un
ribelle idealista, l’alleato degli impoveriti e indifesi. Durante la guerra,
anche quand’era profugo in Egitto, veniva travisato e strumentalizzato a Roma
per la sua adesione al Partito Comunista; una scelta intellettiva conclusa
allora ̶
affermano tutti i suo confidenti
̶ più per un moto psicologico,
che ideologico. Mia madre Elena mi rivela il suo animo profumato di generosità.
Ricorda anche di un “compito a casa” assegnato
- forse nel 1923 -
quando essa frequentava la 2A classe. Doveva imparare a
memoria una inedita poesiola scritta da Jovine, e dedicata al padre: “l’ingenuo
rapsodo di questo mondo defunto”. La mia mamma leggeva la poesia e la
rileggeva ad alta voce fino ad esasperare l’udito di Maria, la sorellina più
piccola, che addirittura, la imparò all’istante e la recitò quella stessa sera,
con esaltazione, attorno al caminetto. La zia Maria, morta novantanovenne a
Rimini nel 2018, svuotando il baule della sua mente me la declamò più volte
per telefono ed ebbi la gloria di gustarla e di tramandarla. Eccola: “Dimmelo
babbo mio, dimmelo franco:/ da quando non ti guardi più allo specchio?/ Se tu
vedessi che capello bianco…/ Non voglio, no! Che tu divenga vecchio./ Essi
vanno all’altro mondo, sai? / Ma tu, papà mio, morir non devi mai/ D’ora in
avanti al mattin e in ogni sera,/ io allungherò di più la mia preghiera: / «Allietagli
il cuor, o Dio, e anche la mente/ fa’ che, per me, lui viva eternamente./ Un
miracolo a Te, Gesù, non costa niente!».
Don Giulio Di Rocco,
“guardiesissimo”, suo figlioccio di battesimo, sacerdote e a sua volta
narratore e poeta, avvalorando l’affermazione di mia madre sullo “spiritualismo
concreto” e connaturato in Jovine, così scrive sul “Tempo” il 31 agosto 1997:
«Sono persuaso
che del marxismo Jovine condividesse l’analisi e la prospettiva sindacalista ed
economica, ma che non accettasse la premessa ateistica e materialista. Il
fratello Vittorio ̶ prosegue don Giulio ̶
omologando il suo intimo profondo, mi ha riferito che rientrando nella
sua abitazione romana, già seriamente colpito da infarto cardiaco al Convegno
di Venezia del Partito Comunista, aprì l’uscio, si tolse il cappello,
s’inginocchiò e, baciando il pavimento ebbe ad esclamare: Ti ringrazio,
Signore, di avermi fatto rientrare a casa mia”. Nella lettera del 27 gennaio
1947 ̶
svela ancora il Canonico Di Rocco, Jovine mi scrive: “Spero che il
Signore voglia illuminarmi totalmente. Purtroppo non ho più l’innocenza
fiduciosa dei semplici e non riesco a raggiungere la salda fermezza dei saggi.”
L’anno dopo, il 16 gennaio 1948, dice ancora a don Giulio: “Lavoro e scrivo con
la speranza di fare un po’ di bene ai miei simili. Vorrei avere quel bellissimo
abbandono del cuore che hanno coloro che credono con candore. La mia fede io la
vado faticosamente ricavando dall’intelligenza, e sono probabilmente perduto in
un mare di errori”. Questa ed altra corrispondenza autentica, è esposta al
Palazzo Loreto di Guardialfiera.
Ma mi ritorna in mente ora una
carezzevole vicenda sperimentata con lui in un giovedì di settembre,
pare del 1948. A settembre, nel mese dei grappoli dorati di luce, di tanta
frutta, di prosciutti stagionati; nel mese tiepido, accalcato di scampagnate,
di stupori per la natura e la vita. Perciò, proprio in questo mese, tanti
impiegati, professionisti, intellettuali di Guardia, disparsi, ma non dispersi
in Italia, ritornavano puntuali qui, come ad una sorgente di armonia. Ritornava
da Napoli Nicola Janniruberto; da Torino Vincenzo Spidalieri; da Bologna Luca
Romeo; da Gorizia Nestore di Meola; da Campobasso Peppino Villani, Vittorio
Maurizio, Vincenzo Cirella (senior), i fratelli Mastroberardino, Giovanni Paolucci,
da Roma Vincenzo Villani, Mario Caluori, Costantino Montano, Nicola, Vittorio e
Francesco Jovine. Tornava, dunque, ‘don Ciccio’ per la nostalgia di
Piedicastello, per rivedere il fumo che usciva a sera dal comignolo di casa
sua, per rivolgere il saluto alla sua gente buona.
In quel pomeriggio d’un giovedì
di settembre in vico San Carlo tra lo schiamazzo di tanti fanciulli, giocavo
con mio cugino Mario, d’un anno più piccolo di me, venuto pure lui da
Campobasso con il papà Peppino Villani. Erano ospiti del nostro comune nonno
Alessandro. Ma a casa, il diletto antenato
̶ così come la massima parte del
popolo, in quell’immiserito dopoguerra
̶ non disponeva ancora della
radio. Mario invece sì, da tanto che l’aveva a Campobasso, e ne era
condizionato. Era un “radiopatico”. A lui piaceva la musica e l’ha rosicchiata,
sgocciolata, assimilata fino alla morte, avvenuta due anni fa.
Orbene ̶ proprio
in quella crisi d’astinenza radiofonica, in quel baleno ̶ ecco
uscire di casa zio Peppino, immancabile frequentatore del “Circolo d’Unione”,
dove lo spiegamento d’intellettuali e molti di quelli rientrati a settembre,
usavano radunarsi per la partita di ramino, per leggere “il Giornale d’Italia”
e per ascoltare la radio! Il cuginetto d’improvviso è attraversato da un
guizzo. Blocca il passo felpato del padre: “possiamo venire con te ad ascoltare
la radio?”. “Ma certo!”. Saliamo i gradoni su da Romolo, entriamo nella grande
sala, il fumo veleggia a bassa quota. E, nel lato sinistro di un tavolino, lì
Francesco Jovine è assorto, con tre altri compari di gioco, alla Scala
Quaranta.
Nell’angolo sinistro, c’è il
mobiletto della radio, Ciccio Caluori va già esplorando le emittenti; deve
sintonizzarsi sulla “rete rossa”, fra tante scariche elettriche dell’onda
media. Sa bene che il giovedì, lì, alle quattro e mezza, suona l’Orchestra
napoletana di melodie e canzoni diretta da Giuseppe Anèpeta. La ritrova,
proprio quando Mimì Ferrari canta “’E spingole frencese”. Jovine è assorto al gioco.
Ma d’improvviso scatta furioso, rendendosi conto, con l’orologio, d’essere al
di là delle cinque, orario in cui la Rete Azzurra (ed io lo appurerò solo tanti
anni dopo) trasmetteva l’Approdo, il settimanale di letteratura ed arte diretto
da G.B. Angioletti: Don Ciccio cambia frequenza alla radio. In quella rubrica
ascolta incantato “Civiltà Contadina e Civiltà Moderna!, un’intervista a
Corrado Alvaro, suo grande amico. E, a
conclusione del programma, io osservo il risveglio del nostro scrittore dalla
sbornia culturale. Quando la concentrazione si va decantando, mi avvicino a lui
e azzardo l’ingenuità di una domanda. Avevo poco più di 10 anni, Gli sussurro:
“Don Ci, ‘Giovedì in settembre’, è forse la descrizione di un giovedì come
quello di stamattina, come la scampagnata di oggi a Pozzo Girino?” Io conoscevo
solo il titolo di quel suo racconto ‘Giovedì in settembre’ pubblicato tre o
quattro anni prima dalla Tumminelli. Ma non lo avevo letto mai. E lui,
accostandosi, mi penetra di tenerezza. Infila le sue dita tozze fra i capelli
miei biondi, e, allora foltissimi, e mormora pressappoco così: Vincenzì, non
allontanarti mai da questa innocenza investigativa, da questa freschezza, che
vorrei avere ancora io. “Giovedì in settembre” è un’altra cosa. La
saprai dopo. La tua domandina però è un disintossicante alla nostra ed alla mia
maturità, spesso fredda e impura”.
Ciccio Caluori, torna a
sintonizzarsi con la “Rete azzurra”, mentre Antonio Basurto canta “O sole mio”.
Vincenzo Di Sabato
Grazie, caro Vincenzo, per questo ritratto intenso e commovente di Jovine, che tu ci restituisci con parole carezzevoli nella sua spiccata personalità e semplicità, una semplicità che spesso contraddistingue i grandi. Questo tuo rivolgerti al passato, a quelle atmosfere antiche introvabili, con tanta freschezza e nitore, evidenzia il tuo schietto pensiero, privo di ombre, e allora quello che ci regali è un dono totale, esclusivo,che forse non meritiamo, presi come siamo nell'affannosa corsa quotidiana che spesso lascia indietro e trascura proprio ciò che è vitale per sentirsi vivi e andare avanti: rinnovare il ricordo di chi abbiamo amato, custodito sulla siepe della memoria, con parole così amorevoli come le tue Grazie ancora, Vincenzo, e..lunga vita!
RispondiEliminaChe grande privilegio essere uno degli ultimi ad aver conosciuto il maggiore scrittore molisano... Bellissima testimonianza
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