di Rita Frattolillo
Il
Corriere della sera del 15 c.m. ha dedicato un paginone al Premio per la
Traduzione. Non solo perché è arrivato vittoriosamente alla terza edizione,
evento da non sottovalutare in un Paese dove ogni iniziativa dura in genere lo
spazio di un mattino, ma in quanto per la prima volta è stata una traduttrice
ad aggiudicarsi il premio: Silvia Pareschi, classe 1969, varesina, voce
italiana dell’americano Denis Johnson (1949-2017).
La
domanda mi è sorta spontanea: come avrà reagito alla notizia del Premio chi storce
il naso davanti al nome del traduttore posto in bella evidenza sulla copertina
di un libro?
Eppure,
in passato sono stati proprio i traduttori a salvare il mondo civilizzato.
Quando l’Europa bruciava sui resti della civiltà romana (dopo la caduta
dell’impero) e quando, nel XII secolo, gli Arabi furono cacciati dall’Europa, in
entrambi i casi furono i traduttori a volgere nell’altra lingua (in arabo la
prima volta e nelle lingue cristiane la seconda volta) i testi che reperivano.
Sicché
la traduzione dell’opera omnia di Aristotele e di altre centinaia di libri
greci e arabi permise all’Occidente di rimettersi in piedi. Da quell’epoca in
poi è toccato a loro “vigilare su uno dei più importanti fenomeni della
civiltà: trasmettere - ha affermato ultimamente il Premio Nobel Olga Tokarczuk
- la più intima esperienza personale di uno scrittore agli altri e metterla in
comunione nel sorprendente atto creativo della cultura”.
E’
un fatto che il ruolo del traduttore, poco considerato dai più, è andato
ultimamente assumendo sempre maggiore importanza.
Se
in passato tra le schiere dei traduttori sono emersi nomi illustri, come quello
di Leone Ginzburg, il primo a rendere gli scrittori russi in italiano
direttamente dalla lingua russa (anziché dal francese), e Natalia Levi
Ginzburg, voce italiana di Proust e
Flaubert, è pur vero che il traduttore è stato visto come un cireneo intento
esclusivamente a rendere al meglio nella lingua di arrivo le sfumature e lo
spirito dell’opera originale, lavoro di grande sensibilità e competenza.
E
lavoro indispensabile per una regione come il Molise, che ha subito varie
ondate migratorie dei suoi figli, spinti dalla disperazione ad approdare
oltreoceano.
Sono
stati i Giose Rimanelli (classe 1926) e i Pietro Corsi (classe 1937), emigranti
di successo e prolifici autori, a creare, in italiano e in inglese, l’epopea
migratoria, scavando nelle stigmate della propria identità lacerata.
Ma
poi, le generazioni successive hanno scritto direttamente in inglese.
Come
il molisano-canadese Nino Ricci (1958), che ha avuto la fortuna di un ottimo
traduttore.
Anzi,
traduttrice, Gabriella Jacobucci, la Fernanda Pivano molisana.
Infatti
la trilogia di Nino Ricci raccolta in “La terra del ritorno” è lettura
appassionante e cattura a mio avviso anche grazie alla capacità e al talento
della Jacobucci di calarsi nel pensiero dello scrittore, cogliendo i sobbalzi
del cuore e i tremori in una scrittura di grande spessore e di profondo scavo
psicologico.
Ma
il ruolo del traduttore si è dilatato perché spesso è proprio lui che, stando a
contatto diretto con club internazionali del settore, individua, segnala
all’editore italiano e quindi introduce nuovi scrittori.
E’
il caso della Jacobucci, traduttrice, tra l’altro, di Frank Colantonio (“Sui
cantieri di Toronto”), e di Mary di
Michele, canadese originaria di Lanciano, il cui libro, “Tenor of love”, è
uscito in italiano con il titolo “Canto d’amore”.
Come
è ovvio, per un traduttore stare a contatto con la letteratura prodotta dalle
seconde/terze generazioni di emigrati significa toccare con mano la virata
dell’ispirazione dei nuovi protagonisti d’oltreoceano, che non ruota più
intorno al vecchio nucleo tematico dell’emigrazione, ma abbraccia altri
argomenti.
In “Canto d’amore”, ad esempio, che
racconta la vita del tenore Enrico Caruso, il rapporto con le radici è appena
sfiorato, e anche la visione dell’Italia appare alquanto superficiale e
approssimativa, come quella di certi turisti stranieri.
Concludendo questi flash, appare chiaro che traghettare e diffondere le letterature
straniere non è impegno da poco, per non parlare dell’eventualità che il testo
originale contenga improprietà e approssimazioni riguardanti, ad esempio, i
nostri detti o le nostre tradizioni, giustificabili in chi è nato e vive a
migliaia di chilometri dall’Italia.
Spetta allora al traduttore
“raddrizzare” il testo.
Forse per questa ragione ancora oggi
qualcuno adopera il parallelo “traduttore=traditore”, quando invece egli,
rielaborando frase dopo frase un testo, in un certo senso lo crea, e in
definitiva è anch’egli autore, senza esserlo del tutto.
In definitiva il buon traduttore si
spinge fin dove è possibile per rendere sentimenti, emozioni e sfumature
nell’altra lingua, creando ponti -indistruttibili- tra culture diverse. E di
essi non potremo mai fare a meno, se vogliamo avvicinarci al mondo che ci
circonda.
Rita Frattolillo©2019 tutti i diritte
riservati
Articolo per me molto interessante . In effetti il ruolo del traduttore spesso è poco valorizzato .Grazie
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