sabato 21 dicembre 2019

C'era una volta la traduzione...


 di   Rita Frattolillo

Il Corriere della sera del 15 c.m. ha dedicato un paginone al Premio per la Traduzione. Non solo perché è arrivato vittoriosamente alla terza edizione, evento da non sottovalutare in un Paese dove ogni iniziativa dura in genere lo spazio di un mattino, ma in quanto per la prima volta è stata una traduttrice ad aggiudicarsi il premio: Silvia Pareschi, classe 1969, varesina, voce italiana dell’americano Denis Johnson (1949-2017).
La domanda mi è sorta spontanea: come avrà reagito alla notizia del Premio chi storce il naso davanti al nome del traduttore posto in bella evidenza sulla copertina di un libro?

Eppure, in passato sono stati proprio i traduttori a salvare il mondo civilizzato. Quando l’Europa bruciava sui resti della civiltà romana (dopo la caduta dell’impero) e quando, nel XII secolo, gli Arabi furono cacciati dall’Europa, in entrambi i casi furono i traduttori a volgere nell’altra lingua (in arabo la prima volta e nelle lingue cristiane la seconda volta) i testi che reperivano.

Sicché la traduzione dell’opera omnia di Aristotele e di altre centinaia di libri greci e arabi permise all’Occidente di rimettersi in piedi. Da quell’epoca in poi è toccato a loro “vigilare su uno dei più importanti fenomeni della civiltà: trasmettere - ha affermato ultimamente il Premio Nobel Olga Tokarczuk - la più intima esperienza personale di uno scrittore agli altri e metterla in comunione nel sorprendente atto creativo della cultura”.

E’ un fatto che il ruolo del traduttore, poco considerato dai più, è andato ultimamente assumendo sempre maggiore importanza.

Se in passato tra le schiere dei traduttori sono emersi nomi illustri, come quello di Leone Ginzburg, il primo a rendere gli scrittori russi in italiano direttamente dalla lingua russa (anziché dal francese), e Natalia Levi Ginzburg, voce  italiana di Proust e Flaubert, è pur vero che il traduttore è stato visto come un cireneo intento esclusivamente a rendere al meglio nella lingua di arrivo le sfumature e lo spirito dell’opera originale, lavoro di grande sensibilità e competenza.

E lavoro indispensabile per una regione come il Molise, che ha subito varie ondate migratorie dei suoi figli, spinti dalla disperazione ad approdare oltreoceano.

Sono stati i Giose Rimanelli (classe 1926) e i Pietro Corsi (classe 1937), emigranti di successo e prolifici autori, a creare, in italiano e in inglese, l’epopea migratoria, scavando nelle stigmate della propria identità lacerata.

Ma poi, le generazioni successive hanno scritto direttamente in inglese.
Come il molisano-canadese Nino Ricci (1958), che ha avuto la fortuna di un ottimo traduttore.
Anzi, traduttrice, Gabriella Jacobucci, la Fernanda Pivano molisana.

Infatti la trilogia di Nino Ricci raccolta in “La terra del ritorno” è lettura appassionante e cattura a mio avviso anche grazie alla capacità e al talento della Jacobucci di calarsi nel pensiero dello scrittore, cogliendo i sobbalzi del cuore e i tremori in una scrittura di grande spessore e di profondo scavo psicologico.

Ma il ruolo del traduttore si è dilatato perché spesso è proprio lui che, stando a contatto diretto con club internazionali del settore, individua, segnala all’editore italiano e quindi introduce nuovi scrittori.

E’ il caso della Jacobucci, traduttrice, tra l’altro, di Frank Colantonio (“Sui cantieri di Toronto”), e  di Mary di Michele, canadese originaria di Lanciano, il cui libro, “Tenor of love”, è uscito in italiano con il titolo “Canto d’amore”.

Come è ovvio, per un traduttore stare a contatto con la letteratura prodotta dalle seconde/terze generazioni di emigrati significa toccare con mano la virata dell’ispirazione dei nuovi protagonisti d’oltreoceano, che non ruota più intorno al vecchio nucleo tematico dell’emigrazione, ma abbraccia altri argomenti.

In “Canto d’amore”, ad esempio, che racconta la vita del tenore Enrico Caruso, il rapporto con le radici è appena sfiorato, e anche la visione dell’Italia appare alquanto superficiale e approssimativa, come quella di certi turisti stranieri.
Concludendo questi flash, appare chiaro che traghettare e diffondere le letterature straniere non è impegno da poco, per non parlare dell’eventualità che il testo originale contenga improprietà e approssimazioni riguardanti, ad esempio, i nostri detti o le nostre tradizioni, giustificabili in chi è nato e vive a migliaia di chilometri dall’Italia.

Spetta allora al traduttore “raddrizzare” il testo.
Forse per questa ragione ancora oggi qualcuno adopera il parallelo “traduttore=traditore”, quando invece egli, rielaborando frase dopo frase un testo, in un certo senso lo crea, e in definitiva è anch’egli autore, senza esserlo del tutto.

In definitiva il buon traduttore si spinge fin dove è possibile per rendere sentimenti, emozioni e sfumature nell’altra lingua, creando ponti -indistruttibili- tra culture diverse. E di essi non potremo mai fare a meno, se vogliamo avvicinarci al mondo che ci circonda.

Rita Frattolillo©2019 tutti i diritte riservati

1 commento:

  1. Articolo per me molto interessante . In effetti il ruolo del traduttore spesso è poco valorizzato .Grazie

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