Ecco come la
scrittrice Simonetta Tassinari racconta nel suo romanzo La notte in cui
sparì l’ultimo pollo — Giunti editore, 2009 – questa notte molto particolare
in cui lei e i suoi fratellini avevano invitato l’amico Carlo, che non
possedeva tv, a vedere questo avvenimento mondiale. Solo che il padre del
ragazzo, Ernesto, un “invornito”, come dicevano, non lo voleva mandare…
[…] Da giorni si respirava
un’aria di eccezionale aspettativa; era come se in tutto il mondo ci fosse solo
una notizia da dare, un solo argomento del quale interessarsi.
Ci colpiva il pensiero che fossimo tutti lì, davanti alla tv, molti di più che non davanti alle partite dell’Eurovisione o di Giochi senza frontiere. Anche gli operai di turno alla centrale elettrica avevano avuto il permesso di vedere la televisione: l’unica voce che si udiva in tutta la contrada era quella del primo canale, al massimo volume.
Ci colpiva il pensiero che fossimo tutti lì, davanti alla tv, molti di più che non davanti alle partite dell’Eurovisione o di Giochi senza frontiere. Anche gli operai di turno alla centrale elettrica avevano avuto il permesso di vedere la televisione: l’unica voce che si udiva in tutta la contrada era quella del primo canale, al massimo volume.
Il collegamento era iniziato
verso le sette e mezza e, assieme ai normali programmi televisivi, era saltato
l’ordine della giornata, del tempo, dello spazio; ci si apriva davanti una
notte sconfinata.
Dopo Carosello ci radunammo stabilmente nel soggiorno e i
grandi si fecero il caffè; tutti sembravano sicuri che noi bambini saremmo
crollati molto prima che dall’Apollo 11 scendessero gli astronauti e ponessero
piede sulla luna. Guardavamo Ruggero Orlando da New York e Tito Stagno da Roma;
tra le due dirette venivano proiettati spezzoni di vecchi film di fantascienza
e si intervistavano gli ospiti in studio, e ognuno diceva quanto fosse
emozionato e onorato di trovarsi lì, insieme a cinesi e giapponesi e
australiani e africani.
«Perché gli africani sì e Carlo no?», domandò Nelson.
«Perché Ernesto è un cuore di pietra», dissi, accigliata.
«Tutto il mondo guarda la luna», sospirò la Renata, sprofondata sul
divano, con una lunga striscia di liquirizia
in bocca. «Anche negli ospedali e nei cimiteri».
«Ma gli ultracorpi li uccideranno tutti», disse Nelson.
«E piantala», lo sgridai io, allungando un braccio verso di lui dal
tappeto dove mi trovavo. Disegnai con le dita piccoli cerchi sul tappeto e
guardai il vuoto alla mia destra, il posto riservato a Carlo.
[…] Mi svegliai di soprassalto.
«E’ già ora di alzarsi?», dissi, riaprendo gli occhi. Aveva
squillato due volte il campanello del nostro cancello, ma nessuno ne aveva
riconosciuto il suono, perché non lo si utilizzava mai: di solito era sufficiente
chiamarci. Dopo qualche minuto si sentì un lieve odore di latte rappreso, di
terriccio e di umido, mentre i Bertonzi, tutti e tre, entravano nel soggiorno.
«Con rispetto parlando, siamo qui per vedere il sole», disse la
Rosa, torcendosi le mani, e Carlo arrossì fino alla punta delle orecchie, ma
con un guizzo di esultanza negli occhi marroni. Erano vestiti come se andassero
alla Messa. Ernesto con una giacca di tweet del babbo di qualche anno prima, la
Rosa con una borsetta dai manici ricurvi, Carlo con i pantaloni corti della
prima Comunione. Gli feci largo sul tappeto, ancora incredula. Là sotto, dietro
le gambe del tavolo, al riparo degli sguardi dei grandi, lui aprì il palmo
della mano con un misto di paura e di soddisfazione e mi mostrò la lunga
striscia rossa di una cinghiata.
«Te le ha date», gli sussurrai nell’orecchio, colpita.
«Sì, però mi ci ha mandato».
«E’ lo spirito della comune», gli feci, con ammirazione. Rabbrividii; ne ero il capo e l’ispiratrice,
però non sapevo se la comune avrebbe dato anche a me la forza di sopportare una
cinghiata sulle mani. «Come ci sei riuscito?»
«Gli ho detto che se non mi mandava scappavo, come Mek. E che poi
morivo come lui, e mia nonna ha detto no, no, se Carlo muore scappo anch’io
come Mek e muoio anch’io, e tu che cosa fai da solo, povero disgraziato?»
Guardai Carlo, esterrefatta. Non aveva mai detto tante parole
insieme. Posai a terra la busta di semi di zucca e, con un cenno, mi feci
passare dai miei fratelli due lunghe liquirizie, una per uno. Tito Stagno gridò Ha toccato! E’ sulla luna!
L’uomo è sulla luna!, e Ruggero Orlando disse No, ancora no!, e Carlo domandò a
me:
«E’ arrivato o no?»
«Sì», risposi io, sciogliendo i suoi ultimi dubbi.
Il giorno dopo ci svegliammo a mezzogiorno. Ricordavo distintamente
che, a un certo punto, dopo che avevamo visto Neil Amstrong che scendeva dalla
scaletta del Lem e faceva qualche passo sulla superficie della luna, una specie
di nuvola solida, ma con dei bozzi, il babbo ci aveva fotto girare verso la
luna vera che spendeva in cielo, e ci aveva detto che, in quel preciso momento,
delle persone come noi ci stavano camminando sopra. Davvero quel 21 luglio 1969 era la notte più
importante della storia: perché nessuno aveva mai fatto una cosa del genere.
Simonetta Tassinari, pagg. 78-81
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