di Gabriella Iacobucci
foto fondazione Einaudi |
Sono trascorsi i primi cinquant’anni da allora, e il
Sessantotto, raccontato e celebrato, entra a far parte ufficialmente della
Storia. Stampa, radio e televisione riportano la cronaca di quelle giornate e
di quei fatti, i protagonisti rievocano quello che successe per le strade,
nelle fabbriche, nelle scuole. Dappertutto mostre consacrano le avanguardie
artistiche nate in quegli anni, e i critici letterari commentano i libri che
segnarono una svolta…
E qui nel Molise? Come
arrivò il vento della contestazione giovanile?
Abbiamo pensato di chiederlo ai nostri amici, ovvero al
piccolo cenacolo letterario e artistico di Molise d’Autore.
Dov’erano, ad esempio, nella primavera del ’68, e cosa
facevano? erano studenti o insegnanti? E come avevano vissuto quell’esperienza?
Avevano qualche ricordo particolare da raccontarci? E altro, se possibile.
Io ad esempio ero
una giovane insegnante di lettere alle prime armi al Liceo Scientifico di
Campobasso, allora sito nell’attuale Conservatorio di Musica di via Principe di
Piemonte, e solo a Roma, nei successivi anni 70, avrei vissuto in prima persona
l’impatto con i grandi cambiamenti in corso. Di quell’anno al Liceo Scientifico
ricordo le assemblee degli studenti, le occupazioni, le lezioni autogestite, e
gli insegnanti divisi tra coloro che spalleggiavano i ragazzi (di qualcuno si
vociferava scandalizzati che gli portasse viveri e coperte per la notte durante
l’occupazione) e coloro che si irrigidivano nelle loro posizioni conservatrici
e giudicavano quel marasma solo un’occasione per i giovani di fare un casino autorizzato. E in parte era
vero, visto che tra gli attivisti più impegnati c’erano, neanche a farlo
apposta, molti degli alunni che in classe erano i più apatici e svogliati.
Tornando ai nostri amici, presto ci siamo resi conto che qualcuno
nel ‘68 non era ancora nato o faceva solo le scuole medie, altri vivevano fuori
del Molise o ancora non vi si trasferivano.
Abbiamo pensato di interrogarli lo stesso. Conoscendoli,
eravamo certi che qualcosa nell’aria avevano captato ugualmente, e che comunque
avevano qualcosa da dire. Non ci sbagliavamo, infatti le loro testimonianze ci
offrono punti di vista diversi, insoliti e interessanti.
Articolo apparso in questo numero del Bene Comune |
E sono quelle di Giuseppina
Fusco, allora insegnante (l’unica che viveva a Campobasso) e poi autrice
del fortunato romanzo autobiografico “Un
corvo nel cuore” (Ed Filopoli), Elvira
Delmonaco, anche lei ex insegnante e autrice di “L'ombra della morgia”, un libro di racconti ambientati a Pietracupa
(Book Sprint Ed), Simonetta Tassinari,
affermata scrittrice ( suo ultimo
romanzo “La sorella di Schopenhauer era
una escort”, ed. Corbaccio), Rita
Frattolillo, nota studiosa e autrice di saggi, e ultimamente di un romanzo
autobiografico intitolato “Le ali del
ritorno”, Barbara Bertolini, giornalista
e blogger di origine emiliana trapiantata in Molise, sua ultima pubblicazione “E qui, almeno, posso parlare?”, e Loreta Giannetti, italocanadese, che è
stata Addetto Culturale all’Ambasciata Canadese a Roma e ha fondato a
Casacalenda il CIAM, centro internazionale dell’acquerello molisano.
***
Giuseppina Fusco
Nella primavera del ’68 insegnavo alle Magistrali, italiano
e storia, cattedra. Per la prima volta avevo un triennio superiore. Un lavoro
impegnativo, che mi teneva sui libri ogni pomeriggio, ogni sera, talvolta anche
parte della notte. Mi preparavo con diligenza e con passione. Del resto due-tre
anni prima, quando mi ero laureata, avevo detto a me stessa: “Beh, ora
finalmente puoi studiare sul serio!”. Avevo già lavorato. Quattro anni alle
medie, di cui tre prima di avere il titolo, un anno al
ginnasio, due-tre mesi al magistrale. Ma era la prima volta che affrontavo una
cattedra così impegnativa. Assorbita come ero dal lavoro, tendevo a chiudere
fuori il mondo intero. Un paio di volte a settimana compravo un quotidiano, in
genere Paese Sera. Leggevo con avidità, ma mi parevano cose di un altro mondo.
Continuavo a sentirmi come in una bolla d’aria. Una piccola città di provincia,
una enclave protetta, dotata di un suo microclima dove non giungono i venti
delle tempeste.
Ne avevo avuto prova all’inizio dell’anno scolastico,
quando in un Collegio Docenti si era parlato di “Lettera ad una professoressa”,
il libretto di Don Milani, di cui avevamo trovato delle copie qualche giorno
prima sul tavolo della sala dei professori. Si era detto in sordina che era
stata un’iniziativa della preside. Nel Collegio, però, c’erano state voci di
condanna, addirittura di ripulsa per i contenuti di quel libretto. Io lo avevo
letto con fervore e mi ero ripromessa di diventare, per quel che stava a me,
un’insegnante adatta ai ‘ragazzi di Barbiana’: ce l’avrei messa tutta.
Ma anche questo impegno etico e professionale, lo vivevo
come un fatto solo mio, nel chiuso della mia mente, senza coglierne la
dimensione politica. E senza capire che da soli non si cambia niente. Ci si
salva l’anima, forse, ma la sostanza delle cose non cambia. Avrei dovuto
leggere di Don Milani anche “Lettera ai cappellani militari” e “Lettera ai
giudici” per capire. Ma non sapevo manco che c’erano. Restavo inquieta, ma senza sapere cosa fare.
E certo non mi rendevo conto che il mondo premeva, inesorabile, e non immaginavo
che avrebbe portato la sua tempesta anche nella mia piccola enclave.
Era già cominciato quello che sarebbe stato poi denominato
il 68. C’era la guerra del Vietnam. Già da almeno tre o quattro anni le
Università americane erano in fermento, leggevo di contestazioni studentesche a
Berkeley e ad Harvard …Ma c’era stata, nella primavera di quell’anno, la
vicenda orribile di My lai. La
ribellione studentesca nelle Università americane era divampata più
violenta, come se quella strage di
inermi, di donne, vecchi e bambini, avesse rivelato, con improvvisa e
innegabile evidenza, il volto vero, il volto demoniaco del potere. E nella
primavera del 68 pareva che quei giovani non potessero reggere senza ribellarsi
l’urto della vergogna e della colpa di essere figli dei massacratori impazziti
di My Lai.
Poi era venuto il maggio francese, in cui ribellione
studentesca e lotte operaie si erano incontrate e mettevano in crisi il potere
di De Gaulle. Ne leggevo su quel paio di quotidiani che comperavo ogni settimana.
Provai per curiosità a far sentire alle mie alunne più grandi qualcuno dei
fantasiosi slogan coniati, credo, da Daniel Cohn-Bendit che guidava a Nanterre
e poi a Parigi la contestazione studentesca: “L’immaginazione al potere” o
“Proibito proibire”. Ne sorrisero.
Il Maggio francese |
Chiudemmo l’anno nella nostra piccola isola controvento in
piena serenità: le nostre ansie si limitavano alle prove degli Esami di Stato e
alle scartoffie da riempire per la chiusura dell’attività didattica. Ma ormai
focolai di contestazione e di rivolta si accendevano in tutta Europa, persino a
Varsavia, a Praga, a Belgrado. Anche in Italia. In tutto il mondo. Sarebbero
arrivate anche nel nostro piccolo mondo.
Per me il 68 venne in primo luogo con una personale
angoscia. In quell’estate mio fratello Paolo stava oltre cortina, impegnato in
non so quale campo di lavoro, o gruppo di studio, organizzato credo dai
socialisti per i quali allora simpatizzava, e si trovò ad assistere quasi in
prima fila alla fine della primavera di Praga. Tornarono tutti,
rocambolescamente, stanchi e puzzolenti, di sudore e di paura. I carri armati
sovietici? No, non avevano visto niente. Ne sapevamo di più noi, inchiodati per
giorni da interminabili telegiornali. Non sapevano niente di preciso. Solo quel
lungo brivido di paura, paura e rabbia di rimanere incastrati, di non poter
tornare, di essere inghiottiti, senza nome e senza volto, in una palude
onnivora.
Leggemmo e rileggemmo sul Manifesto, di lì a qualche mese,
Praga è sola, e a lungo ne discutemmo, appassionatamente. Poi, Jan Palach.
Piazza San Venceslao. Anche lì si era rivelato il volto demoniaco del potere.
Ascoltammo, qualche tempo dopo, Guccini, e nei suoi versi vedemmo la terra
sudare sangue e l’antico rogo di Jan Hus lingueggiare di fiamme e di fumo nero.
Avevano ragione? Sì, avevano ragione. Bisognava costruire un mondo nuovo. E per
costruirlo bisognava ribellarsi. E lottare, trovare compagni, non sentirsi e
non essere più soli, convincere avversari o, almeno, smussarne le asperità,
mettere in crisi i pregiudizi più radicati.
Lo aspettavo, pur senza rendermene conto, da quando avevo
letto Don Milani. Ma non avevo neanche immaginato che sarebbe durato tanto:
dieci anni durò quello che continuiamo a chiamare il sessantotto. La ribellione
divampò in tutte le scuole superiori, in tutte le università: anche le isole
felici – roccheforti tenaci del vecchio mondo – furono coinvolte e vissero le
loro tempeste che si scagliavano contro quel vecchio mondo che era parso fino a
poco prima immobile e immutabile, ne dimostravano l’assurdità, le intime
incoerenze, la subdola e continua violenza. Ne vivevo gli scricchiolii nei Collegi dei docenti e nelle Assemblee
degli studenti…E siccome ero ancora precaria le conobbi quasi tutte le scuole
superiori della città…
Ai colleghi dicevo che toccava a noi, anche a noi,
interpretare il senso di quella protesta, non guardare i ragazzi come se
fossero lanzichenecchi venuti ad abbeverare cavalli teutonici nelle
acquasantiere di San Pietro; toccava anche a noi trovare risposte, sia pure
estremamente parziali, e con la piena consapevolezza della loro parzialità, nel
nostro specifico, dentro la scuola. Ognuno di noi aveva il compito di
presidiare la democrazia e di contribuire a renderla più autentica nel pezzetto
di mondo che gli era toccato. Ognuno di noi, coi suoi limiti, poteva
contribuire alla fabbrica del mondo nuovo. E c’era tra i colleghi, soprattutto
quando approdai al Liceo Scientifico, chi molto meglio di me sapeva chiarire
che se non toccava a noi fondare il nuovo mondo – impresa ben superiore alle
misere forze di quattro gatti di insegnanti! – certo non poteva toccare a noi
difendere ad oltranza, e per chissà quale dovere di ufficio!, la decrepitezza
intollerabile del vecchio mondo.
Ricordo il bisogno di concretezza che a Nella faceva
individuare le mediazioni possibili, e le decisioni operative che ne potevano
derivare: “hic et nunc!”, diceva, trasformando un’occupazione in seminario di
studio e di approfondimento. Di un’altra, Lina, ricordo la fede nella didattica
(e la coscienza del suo limite intrinseco) e nella razionalità, ma anche l’ansia
che si salvasse, sempre, il tessuto democratico, garanzia della ‘rivoluzione in
atto’. Mi torna in mente Virginia, la
più appassionata intelligenza politica di quegli anni, l’unica forse per la
quale, ricomponendosi in un disegno leggibile, i tasselli rivelavano il loro
senso pieno, la loro intima coerenza.
Ma c’era di tutto, in quegli anni convulsi. C’era chi nei
ragazzi vedeva i nuovi barbari, i distruttori di un equilibrio che sarebbe
andato in frantumi e avrebbe lasciato solo macerie. E c’era anche chi credeva
di star già facendo la rivoluzione, chi vedeva nel primo eskimo di passaggio il
portatore di un nuovo vangelo di liberazione, chi non poteva resistere ad un
raptus di “giovanilismo senile”, chi pensava che l’indomani si sarebbero fatte
le barricate. “No, no…”, mi provavo a ribattere, “ non sono né distruttori né
liberatori…sono ragazzi… hanno bisogno di futuro…ponti, ponticelli traballanti,
che si proiettano verso il futuro…e non sanno se e come ci arriveranno…solo una
certezza hanno: non lo vogliono come il nostro mondo…Mentre distruggono già
forse stanno costruendo, infrangono vecchi miti, per viverne di nuovi…cose in
cui credere… cose che diano valore alla vita…perciò la loro battaglia è anche
nostra, perciò dobbiamo metterci a rischio, mantenere saldo il rapporto.”
Così, con uno stato d’animo inquieto e appassionato vissi
il mio 68, che d’altronde si protrasse a lungo, nel pieno degli anni 70. Volevo
esser parte di quel grande sogno collettivo che ci mettemmo a sognare in tanti.
Quel sogno era necessario. La sua sconfitta, ne ero certa, sarebbe stata la
sconfitta di tutti. Certo ne vedevo le incoerenze, l’ambiguità dei soggetti
sociali e ne soffrivo, anche prima delle dure parole di Pasolini sulla
battaglia di Valle Giulia, ma ne sentivo la necessità; e volevo essere parte di
quella tumultuosa tensione a trasformare il modo di essere e di pensare, di
quella – si è detto poi – rivoluzione culturale. Ma perché lo fosse davvero,
sentivo che doveva avere un grande protagonista. Un grande soggetto collettivo,
capace di dare unitarietà ad una tensione che, se si fosse dispersa in mille
inutili rivi, avrebbe richiesto prezzi altissimi.
Poteva esserlo, una rivoluzione culturale. Ed è stata,
invece, soltanto una lunghissima ribellione, certo qualcosa di più di una
jacquerie, o di una serie scoppiettante di jacquerie, ma fatalmente soggetta a
strumentalizzazioni, a ripiegamenti e infine alla dissoluzione. Il futuro non
lo ha costruito, anche se vi ha lanciato dei semi, e alcuni di quei semi hanno
poi fatto pianta.
Nel bene e nel male. Era una ribellione, carica di
contraddizioni, ma ricca dell’essere una grande speranza che serpeggiava con le
sue fiamme in tutto il mondo, in particolare nell’Occidente, e dell’essere
disegno per quanto incerto e confuso di un mondo nuovo, che premeva sotto il
guscio tenace di quello vecchio e, qua e là, ci è riuscita a incrinarlo, anche
se il vecchio mondo ce lo siamo poi ritrovato mescolato al nuovo, indebolito ma
ancora capace di condizionare la storia. Del resto, tesi-antitesi-sintesi, come
dice il vecchio Hegel. Non sappiamo mentre scagliamo contro una vecchia realtà
da mille parti diverse la/le nostra/e antitesi, come si strutturerà la realtà
nuova.
Questo dicevo anche ai ragazzi, nelle assemblee. Li mettevo
in guardia, quei ragazzi che mi sventolavano sotto il naso i giornali di
Avanguardia Operaia, sapevano le mie simpatie per un partito della sinistra
storica e le condannavano, duri e puri,
e destinati a spezzarsi o a partecipare – previo passaggio penitenziale dal
barbiere – senza più quei meravigliosi e rivoluzionari capelli lunghi e incolti
a miserevoli autodafé. Gli dicevo che a niente porta, se non a maggiore
avvilimento, quel tumulto dei Ciompi, che ogni giorno mettevano in piedi.
Cosa aveva a che fare quel disordinato ribellismo con il
grande sogno di un mondo di pace e di giustizia? E di eguaglianza? Dei grandi
sogni bisogna avere il coraggio. E assumersene i doveri, perché sempre il
coraggio dei sogni implica la fatica del capire, del sapere, del misurarsi con
la realtà, del costruire alleanze, non ghetti. Volevo, forse, che fossero come
i ragazzi di Barbiana? Solo i ragazzi di Barbiana, questo pensavo in realtà,
sarebbero stati in grado di costruire un nuovo mondo.
Rita Frattolillo
Il mio ’68 è cominciato prima, quando si è diffusa “Lettera
a una professoressa” di don Milani nella scuola media di paese dove facevo il
mio rodaggio di fresca laureata in lingue moderne. Il preside ci aveva
raccomandato con calore la lettura attenta del volume che don Lorenzo aveva
scritto insieme ai suoi alunni, i ragazzi della sperduta frazione di Barbiana, e
che aveva pubblicato, un mese prima della sua morte, nel maggio ’67.
Se nel sonnolento paese ai confini dell’impero quel libro
ebbe l’effetto di un sasso nello stagno, risvegliando l’intolleranza dei soloni
e dei benpensanti, tenaci assertori dello statu quo, molti di noi erano pronti
a una scuola meno paludata e più aperta verso i ragazzi disagiati. In verità
avvisaglie dell’impatto - confuso e rumoroso - del mondo nuovo che premeva
contro quello vecchio le avevo percepite già a Napoli, negli anni
dell’Orientale: occupazioni e scioperi, cortei e manifestazioni erano il pane
quotidiano di noi studenti che spesso ci trovavamo intrappolati nella ressa. La
miccia sempre pronta ad esplodere.
Il proletariato urbanizzato reclamava case e lavoro, ci si
mobilitava per il sangue del Vietnam come per la fantasia al potere, per il 18
politico e per la musica rock; il libretto rosso di Mao era esibito nelle assemblee
come una bandiera, cortei femministi reclamavano con gran rinforzo di cartelli
i diritti civili, da quello all’aborto a quello del divorzio. Roma faceva da cassa di risonanza di tutto il
Paese; cordoni di studenti, specie a valle Giulia, impedivano con la violenza
ad altri ragazzi, tra cui le mie sorelle che frequentavano l’università, di
dare gli esami, dopo brutali tafferugli.
Tutto, intorno a noi ragazzi del ’68, sembrava precipitare
vorticosamente, i toni si facevano esasperati e il ribellismo prendeva sempre
più piede. Persino il Festival di Venezia venne contestato! I cardini della
società “regolare” e dei poteri consolidati si sgretolavano. La sensazione era
che il mondo si rivoltava, ma io volevo far parte di quella tumultuosa tensione
che voleva trasformare il mondo, infrangere i vecchi miti per fondarne di
nuovi.
Chi insegnava nei licei del vicino capoluogo mi confidava
che era necessario interpretare il senso della protesta giovanile mantenendo
saldo il rapporto con le proprie classi e contribuire a costruire il nuovo.
Cosa è rimasto di quel fervore, di quelle battaglie, di tanti sogni? Il salto
culturale, antropologico, l’accelerazione prepotente di quegli anni ha generato
uno strappo, una divaricazione tra le generazioni che si sono succedute di cui
ci si è resi conto progressivamente e la cui eco è stata lunghissima. Certo, la
Pace e la Giustizia nel mondo sono rimaste solo bei sogni, ma molte sfide senza
noi ragazze del ’68 non sarebbero state vinte.
Simonetta Tassinari
Nella primavera del 1968 avevo
undici anni, ed ero estremamente invidiosa dei ragazzi che, in quel momento,
stavano dando un così grande scossone al mondo degli adulti: semplicemente
perché avrei voluto farne parte anch’io. Perché mi piacevano così tanto? Perché
erano il nuovo che avanza.
I ragazzi manifestavano, occupavano,
gridavano, andavano in giro inalberando cartelli, e dietro di loro, al loro
fianco, avanti e dietro si intuivano minigonne, sigarette, i Beatles, la
modernità. Dall’altra parte vedevo invece i cosiddetti “benpensanti”, un gruppo
informe e grigiastro, addirittura strisciante, che mi dava il sentore delle
cose stantie (e pensavano davvero sempre bene come il termine faceva supporre,
mi chiedevo? Non si sbagliavano qualche volta anche loro, i benpensanti?).
Del movimento studentesco si
parlava in tv e sui giornali: era l’argomento sulla cresta dell’onda, quello
che faceva vendere le copie e aumentava l’audience (anche se, a quei tempi, si
chiamava “indice di gradimento”). A casa mia arrivavano settimanalmente riviste
come “Oggi” e “Gente” —
anch’io ne ero una accanita lettrice —
e c’erano pagine e pagine di foto e interviste ai “big” della rivolta
giovanile, soprattutto francesi: Daniel Cohn-Bendit mi attraeva indicibilmente,
così interessante, così ribelle, così travolgente, così biondo, e mi piaceva che
non perdesse occasione di dare fastidio al generale De Gaulle.
Tuttavia, per una sessantottina
“in pectore” e anonima (io) a casa mia c’erano parecchi oppositori
dell’”immaginazione al potere.” L’attacco degli studenti francesi al loro capo
di stato veniva percepito dai miei genitori come inaudito e senza senso, e il
“Dove andremo a finire?” risuonava, a casa mia, più del “Proletari di tutto il
mondo unitevi” sulla bocca di Karl Marx. I miei genitori, rafforzati da mia
nonna che viveva con noi, si auguravano che la ventata sarebbe passata quando
io e i miei fratelli fossimo diventati grandi, mentre io e i miei fratelli, al
contrario, ci auguravamo che durasse almeno per dare il tempo a noi di sfilare
portando cartelli e scandendo slogan (se non ricordo male, ci giocammo anche,
al ’68, per l’appunto sfilando per casa e alzando la voce.)
Temevamo che ci stesse passando
sotto il naso qualcosa di molto avventuroso ed eccitante. Probabilmente, anzi
sicuramente non comprendevamo un granché delle motivazioni della rivolta
giovanile, ma che importanza aveva? Ricordo bene anche i commenti di mia nonna,
molto tradizionalista, anzi, di più, conservatrice e un po’ “fascista”. Nel suo
parere chi non aveva vissuto due guerre mondiali – e lei ne aveva vissute ben
due — non aveva il
diritto di protestare né di lamentarsi, e avrebbe dovuto starsene “al posto
suo”. Si chiedeva: questi ragazzi possono studiare, hanno soldi in tasca,
mangiano bene, vanno in giro col motorino, ma che cosa vogliono?
La nonna era particolarmente
irritata dall’affronto che quegli scavezzacollo stavano facendo al generale De
Gaulle, il quale, secondo lei, era perfino un “bell’uomo”. Nel mio parere — benché modesto e silenzioso
— tutto si poteva dire
del generale De Gaulle, con quell’aspetto perennemente accigliato e quel buffo
cappellino in testa, tranne che fosse un bell’uomo. Ebbi la mia (sempre modesta
e silenziosa) soddisfazione quando seppi che il generale si era dimesso.
Adesso, a ben pensarci — senza, mi auguro, essere
diventata anch’io una “benpensante”, visto che, per l’appunto, non sempre i
“benpensanti” pensano bene —
direi il significato del ’68 è che ognuno, autonomamente, vuol conquistarsi “Il
suo posto”, concetto ontologicamente
diverso da quello di “posto suo”, perché, in quest’ultimo caso, si sottintende che lo abbia preparato qualcun
altro, e che là ci voglia far restare.
Ogni generazione porta un
pezzettino di sé nel mondo.
C’è chi ce lo porta
silenziosamente e chi, invece, sfila e grida slogan assieme agli altri.
Ed è questo che — forse — hanno fatto i ragazzi del
’68.
Maria Loreta Giannetti
da Montreal
In quel periodo ero totalmente assorbita nella mia mente,
là dove nessuno poteva entrare. Pensavo e sognavo al mio ritorno in Italia dopo
la spaccatura del ‘57 quando tanti contadini andavamo in cerca di fortuna in
altre terre. Durante i miei studi al liceo, lavoravo il fine settimana per
poter mettere da parte qualche soldo per comprarmi il biglietto di andato e
ritorno per l’Italia. Da bambina, il mio sogno era fare come i salmoni canadesi
che ritornano al luogo di origine per dare nuova vita; ritornare nella mia
terra natia, il paese della mia fanciullezza, per contemplare i tetti delle sue
case, i vicoli stretti, i cavalli al galoppo e le fontane generose. Riempire la
mia anima che soffriva di troppe ore di lontananza da quella terra polverosa.
Non m’importava nulla di quello che stava succedendo in
Francia: la violenza, le manifestazioni, i soldati, i gendarmi. Non volevo
farmi rubare il mio ritorno in Italia. Ma soprattutto quel mese di maggio è
stato un tempo fatto di silenzi, di sguardi, di sfida nei confronti di mio
padre. Il mio sogno di voler ritornare in un paese che non aveva fatto niente
di buono per lui, era uno schiaffo morale.
Per lui, quel paese significava fame e
povertà. Ed io stavo per tradire mio padre con questo progetto che lui,
in silenzio, non accettava. Mentre io
non ammettevo più la sua autorità su di me, non accettavo più le sue ragioni:
come gli studenti a Parigi, anch’io mi ribellavo contro una autorità. Infatti, con la complicità di mia madre, che
forse aveva anche lei le sue buone ragioni di resistere alle pretese del
marito, avevo comprato il biglietto d’aereo contro la volontà paterna. Questa
volta avevo vinto e mi liberavo del potere patriarcale che mi aveva tenuta
legata alla sua volontà.
Montréal, McGill University |
Ogni giorno di
maggio contavo le ore. Quelle violenze che avvenivano dall’Europa non mi
lasciavano tranquilla, temevo sempre che qualcosa potesse succedere per
impedirmi di prendere l’aereo quel famoso giorno del 13 giugno. Tutti i giorni pensavo a questo ritorno in
patria. Spesso la notte facevo incubi, sempre gli stessi: tante mani che mi
mantenevano per non partire e se partivo, non arrivavo mai. Come Ulisse che si
avvicinava a Itaca per tanti anni senza poter raggiungere la costa del suo
amato paese. Ulisse era sempre costretto a non arrivare; gli dei non volevano
farlo ritornare a casa.
Cosi mi sentivo anch’io.
Quante volte mi risvegliavo in quel famoso maggio ‘68, tutta sudata per
aver combattuto quelle cattive sirene che mi impedivano di ritrovare la mia
amata terra. Ho aspettato con il cuore in gola, che ha battuto forte fino al
momento felice dove mi sono infine potuto sedere su quell’aereo in partenza per
l’Italia.
Maggio ‘68 e stato per me una ribellione non in piazza,
come i francesi, ma una battaglia personale tra le mura di casa mia: un atto
decisivo per volare con le mie ali, riallacciare con il passato e iniziare una
nuova vita.
Elvira Delmonaco
Il '68 si è insinuato nella mia vita passando dalle notizie
internazionali al Rettifilo di Napoli, coinvolgendo la maggior parte di noi
giovani entusiasti che volevamo poter dire la nostra in un mondo che
apparteneva anche a noi, ma non è stata una partenza rapida, anche se il
malcontento serpeggiava da molto.
Noi dell'Istituto Orientale, risentimmo meno del clima
infuocato della Università Centrale, nostra vicina che reagì molto prima e
molto più a lungo di noi, ma anche noi alla fine fummo coinvolti e la
contestazione deflagrò mettendo tutti contro tutto.
Un senso di libertà, di affermazione dei propri diritti
come persone e come cittadini cominciò a circolare dappertutto e creammo legami
ideologici con i paesi in cui la contestazione era più viva che mai, facendo
fronte comune contro ciò che era guerra, oppressione e sopraffazione,
allargando la nostra protesta dalla politica ai nostri professori dalla
bocciatura facile e dagli esami impossibili.
La nostra contestazione fu piuttosto tranquilla, rispetto a
quella della Università Centrale che organizzava cortei che regolarmente
venivano caricati dalla polizia, in cui si insinuavano gli estremisti di destra
e qualcuno regolarmente si faceva male. Noi dell'Orientale scioperammo,
abbracciando la pace e protestando contro la violenza e l'oppressione. Tutti
avevano il diritto alla parola e si parlava molto, si facevano discorsi affermando
l'uguaglianza dei diritti di tutte le razze, le rivendicazioni sindacali, la
solidarietà ai popoli oppressi, inneggiando al marxismo e alla libertà.
Tra noi c'era anche un gruppetto di giovani comunisti
esagitati, il cui leader gridava che bisognava imbracciare il mitra e se non
ricordo male, ci fu anche qualcuno che voleva impedire con le armi l'ingresso
all'Università. Ricordo ancora un loro discorso il cui succo era che bisognava
distruggere tutto per ricostruire, fare una enorme tabula rasa, ma non erano
queste le idee per cui molti pacifisti erano stati picchiati nei cortei
universitari.
Circolavano teorie contrastanti e a volte era difficile
capire la direzione da prendere. Quando
l'Istituto fu di nuovo completamente operativo, i professori contestati,
dimostrando che avevamo fatto bene a contestarli, si rifiutarono di esaminarci
per cui fu chiamata una commissione esterna che devo dire non fu punitiva, come
ci aspettavamo. Volevamo cambiare il mondo nel nostro orgoglio e in un certo
senso ci siamo riusciti, ma poi il mondo ha cambiato noi.
Barbara Bertolini
Il mio ’68 l’ho vissuto in sordina. Vivevo a Ginevra dove
stavo terminando gli studi. E, in Svizzera, la ventata fresca della rivoluzione
giovanile e del femminismo ci arrivò molto flebile. Non ricordo sommosse, non
ricordo animate discussioni, non ricordo cortei. Eppure, la Francia era a due
tiri di schioppo e, lì, i giovani erano scesi in piazza spaccando tutto. Ma la
rivolta che riguardava soprattutto l’Università “La Sorbonne” di Parigi e altre
università importanti, non aveva toccato i confini della Francia. E noi la
vedevamo solo in televisione. Tra le immagini trasmesse ricordo quella di uno
scalmanato Daniel Cohn-Bendit, attualmente membro del Parlamento Europeo.
Ma la gioventù della Francia metropolitana era un’altra
cosa rispetto a noi fortunelli che vivevamo in una isola “felix” poiché avevamo
delle prospettive immense e, a Ginevra, arrivavano ogni mattina anche migliaia
di giovani francesi dalla vicina Savoia. Infatti, partivano dalle cittadine di
Annemasse, Thonon o Annecy e si riversavano nei vari uffici ginevrini. Tra di
loro avevo delle amiche e di rivoluzione non se ne parlava proprio.
Università Ginevra |
Si trovava lavoro con una facilità incredibile. Bastava
rispondere agli annunci sui giornali e nell’arco di uno- due mesi si era
assunti. Lo stipendio era ottimo per cui di che cosa ci potevamo mai lagnare?
Se il “patron” ti trattava da schiavetto negro, cambiavi posto: un altro datore
di lavoro lo ritrovavi senza problemi. L’emancipazione femminile era già
arrivata: portavamo i pantaloni (una delle nostre prime conquiste), i cappelli
alla maschietto, potevamo scegliere il nostro partner, uscire liberamente,
lavorare senza problemi: insomma avevamo una certa indipendenza che non avevano
certo avuto le mamme italiane, forse un po’ di più quelle svizzere. Mancavano
ancora dei punti da conquistare sui diritti fondamentali. Ma quelli sono
arrivati dopo, acquisiti dalle lotte femminili politiche all’interno della
società il cui “via” è stato dato proprio dal ‘68.
Noi ragazzi “svizzeri” eravamo ignari di politica, di diritti.
Ricordo che un professore ci chiese di fare un tema sui sindacati. Fui l’unica
a scrivere qualcosa perché ne avevo sentito parlare in Italia, ma i miei
compagni zero, non ne conoscevano l’esistenza, la nostra ignoranza era abissale
perché il sindacato aveva ben poco da difendere: era la domanda e l’offerta a
stabilire le regole e, poiché la domanda era superiore all’offerta, le regole
per il lavoratore erano automaticamente vantaggiose.
Comunque il ‘68 fu il segnale che qualcosa nella società
mutava completamente, soprattutto dal punto di vista sessuale e ad aiutarci non
è stato solo il ’68, ma anche la scienza. Se fino a quel momento la donna aveva
dovuto custodire gelosamente la sua integrità pena non avere un matrimonio che
le avrebbe garantito una vita familiare, con l’arrivo della pillola poco a poco
tutto cambiò e, 50 anni dopo, il problema non si pone più per quasi tutte le
donne occidentali, almeno dai commenti che sento dai giovani. Ci aspetta ancora
la parità completa uomo-donna ma, anche quella, non mi sembra ormai molto
lontana. Posso davvero dire che il Novecento è stato il secolo della
liberazione della donna e il ’68 è stato fondamentale.
***
Questo
articolo, di Gabriella Iacobucci, appare sull’ultimo numero della rivista IL
BENE COMUNE già in edicola.
Foto riprese da:
https://oneclass.com/blog/mcgill-university/61313-10-easiest-courses-at-mcgill-university.en.html
https://www.google.it/search?biw=1034&bih=539&tbm=isch&sa=1&ei=G0QzW8mpOYmzkwXinr3YDQ&q=ginevra+%2B+universit%C3%A9&oq=ginevra+%2B+universit%C3%A9&gs_l=img.3...11094.14377.0.15430.13.13.0.0.0.0.121.1280.7j6.13.0....0...1c.1.64.img..0.12.1186...0j0i67k1j0i30k1j0i8i30k1.0.Gd1CdtQ986k#imgrc=QszcNjKKHweydM:
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