giovedì 26 gennaio 2017

Campi d'internamento nel Molise

Donne internate
Il giorno della memoria. La storia di Caterina Martino e del campo di internamento di Vinchiaturo è tratta dal libro “IL TEMPO SOSPESO. DONNE NELLA STORIA DEL MOLISE”, di Rita Frattolillo e Barbara Bertolini, edito da Libreria editrice Filopoli.

Caterina Martino  di Rita Frattolillo

Di lei si sa solo quel poco che è trapelato sinora, e cioè che apparteneva ad una rispettata famiglia di Vinchiaturo allineata con il regime durante il periodo fascista, che non era sposata, e che svolse la funzione di direttrice del campo di concentramento nel suo paese.
Forse suonerà strano che nel nostro Molise siano esistiti i campi di internamento: sono ancora molti coloro che ignorano che neanche la nostra regione si è sottratta alla vergogna di quella  realtà.
Ciò a causa del silenzio che per decenni è sceso su quell’aspetto del nostro passato, silenzio dovuto anche ad una comprensibile – ma non giustificabile – rimozione operata su quel capitolo niente affatto glorioso della nostra storia recente.
E invece, quando furono emanate le leggi razziali, nel 1938, ai luoghi scelti per il confino dei dissidenti, sospettati o malvisti che fossero dal regime, si aggiunsero i siti individuati come adatti per la sistemazione dei lager.

In Italia nei primi mesi di guerra ne furono allestiti circa 40,  sempre in località decentrate, meno politicizzate,  e per lo più vicine a scali ferroviari.
Nei paesi del Molise, già prima di quella data erano cominciate ad affluire facce nuove, persone che, a torto o a ragione, erano considerate contrarie all’ideologia mussoliniana e perciò confinate. Bastava poco per essere mandati al confino, bastava un’amicizia ritenuta sospetta o possedere libri “proibiti”.
A Larino, per esempio, dal 1937 al 1940 fu confinata una donna bolognese, Libera Teresa Arstani, rea di possedere i libri di Arturo Labriola e di Luigi del Pane. 
Capitava pure che  i dissidenti antifascisti fossero ospitati in abitazioni private; così, finirono a Vinchiaturo, in casa Giordano (come testimonia Guido Giordano), due antifascisti, Giannetto Baldi, proveniente da Roma, e Giovanni Marziale di Monte Urano (Ascoli Piceno).
Particolarmente malvisti perché sospettati di spionaggio a causa della conoscenza delle lingue erano poi gli stranieri residenti in Italia. Molti di essi andarono ad affollare i campi di internamento  allestiti in diverse località del Molise: Agnone, Bojano, Baranello, Casacalenda, Isernia e Vinchiaturo. Nella nostra regione furono circa 670, di cui 292 ebrei di diversa nazionalità.

Qui l’alloggiamento individuato come campo era ubicato presso un edificio privato a tre piani, di proprietà della famiglia Nonno, posto – ironia della sorte - in via della Libertà, una strada parallela al Corso centrale del paese.
 Provvisto di finestre con inferriate e  impianto elettrico, era però privo di servizi igienici idonei. Al pianoterra  vennero allestiti il refettorio e la cucina, che era a gestione esterna. Al primo piano erano tre camere da letto ed un soggiorno, al secondo altre cinque camere, con due latrine e altrettanti lavandini. Gli “arredi” di ogni camera erano ridotti all’essenziale. Gli ispettori del Ministero dell’Interno lo ritennero idoneo ad accogliere 50 internate, mentre, secondo gli emissari della Croce Rossa internazionale che visitarono il campo il 21 giugno del 1943, esso poteva ospitarne non più di 35.
 L’8 giugno 1940  giunsero da Roma le prescrizioni che perfezionavano il funzionamento del campo, che, a destinazione esclusivamente femminile, sarebbe stato diretto dal podestà di Vinchiaturo coadiuvato da una direttrice, la signora A.I.
Ma ad esercitare effettivamente la funzione fu la figlia di costei, R.M., Caterina Martino detta Rina.
E’ a questo punto, dunque, che entra in scena un personaggio femminile che rappresenta un netto scarto rispetto all’immagine e ai ruoli tradizionali della donna.
Dalle  indagini più recenti riguardanti le leggi razziali del 1938 è venuto fuori il profilo – sia pure dipinto a larghi tratti  ̶  di una donna severa e autoritaria, quale, del resto, il suo ruolo di direttrice di un campo esigeva.
Certo, sorprende, almeno  a leggere le varie testimonianze riferite, la naturalezza con cui lei si è calata nella parte di chi sta dall’altra parte della barricata, dalla parte degli oppressori.
L’aggettivo più ricorrente in bocca alle persone rintracciate dai ricercatori è “intransigente”.
 Leggiamo che il regime di «detenzione del campo era reso ancora più rigoroso dal temperamento della direttrice, energica, ma non tiranna, “ferrea tedesca”»  e che lei «non ammette deroghe o eccezioni alle regole imposte» (Alba Ficca).
Infatti, «le internate sono tenute al rispetto degli orari, e, in caso di ritardo, viene loro proibito  dalla direttrice di consumare i pasti», e poco importa se i ritardi nell’orario della prima colazione sono dovuti al sovraffollamento e alla carenza dei servizi igienici.
Intransigente, ma non inflessibile, se è vero, come ricordano le testimonianze, il contrasto nell’atteggiamento tenuto dalla direttrice (e dalle inservienti) nei confronti delle detenute ebree, sottoposte a stretta sorveglianza, mentre le italiane [chiamate “fiumane”, n.d.r.] erano più “ben viste” e ricevevano qualche privilegio.
Come quello di poter uscire  oltre l’orario stabilito per le due “passeggiate” giornaliere, perché si era protette dalla direttrice o dal medico stesso del campo, che era lo stimato e umano medico Nicola Martino, fratello della direttrice. Una delle “privilegiate” era la pianista Tamara, che probabilmente doveva alla sua abilità musicale l’occhio di riguardo della direttrice.
Ad aggiungere un altro tocco a questo profilo femminile così fuori norma, la testimonianza che «le internate non se ne stavano tutto il giorno oziose, ma che anzi facevano lavori a maglia, all’uncinetto, qualcuna dipingeva, qualche altra ricamava. Così Brigida [un’inserviente, n.d.r.] promuoveva e sponsorizzava i lavori da cui le più indigenti potevano trarre qualche introito e lei, chissà, forse una piccola percentuale ».
Se questi sono i fatti, e non se ne saprà altro finché i fascicoli che riguardano  questa donna rimarranno sotto chiave, l’impressione che si ricava dai ricordi delle testimoni  è quella di una donna dal polso molto forte, che ha dato prova di grande intransigenza, ma non priva di umanità, attenta a salvaguardare la dignità delle recluse, assecondando le loro inclinazioni artistiche e i loro bisogni lavorativi, contrariamente a quanto accadeva  negli altri lager, dove ad essere annientata era anzitutto la dignità degli internati.      

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Poi, un giorno, mi trovavo a Vinchiaturo per avere notizie dettagliate su Liliana Pistilli dal marito, Guido Giordano.
Gentilmente, il padrone di casa mi mostrava, precedendomi nelle varie stanze della villetta,  gli oggetti cari alla consorte scomparsa (ma quanto presente!) e i cimeli di una famiglia che aveva molto da raccontare.
In uno degli ambienti, appeso alla parete, un acquerello dai toni caldi  attirò la mia attenzione. Non per la grandezza e neanche per il valore artistico, ma per il senso di serenità che emanava.
Rappresentava una tranquilla scena di paese, con tre donne che, avvolte nello scialle, erano intente a conversare; sullo sfondo, delle case e, in lontananza, montagne violette. In basso, sulla destra, si intravedeva una firma, Wuda, e una data, 1943.
 Il padrone di casa si affrettò a spiegarmi che quella era solo una copia, poiché l’originale apparteneva ad un professore napoletano, Carlo Raso.
 Ma la cosa  sorprendente era che esso - aggiunse subito dopo - era stato dipinto nel campo di internamento di Vinchiaturo da una delle internate, la pittrice estone Wuda Paab (vedova Luse, nata in Estonia), la quale, con quel dono, aveva voluto ringraziare la direttrice del campo per la sua umanità. Mi astenni dal chiedere per quali vie il quadro era arrivato a Napoli, poiché mi interessava di più la figura della “ferrea tedesca” direttrice di quel lager.
Tuttavia, l’esistenza di quel quadro mi parlava chiaramente della riconoscenza verso la direttrice del campo da parte della pittrice estone. Mi tornarono allora in mente le parole delle testimoni relative all’atteggiamento protettivo della Martino nei confronti delle artiste, come quelle riguardanti la volontà della direttrice di tenere occupate nel lavoro le internate.

Nei piccoli centri, si sa, ci si conosce tutti, e il mio anfitrione quasi sicuramente aveva  frequentato Caterina Martino.
Infatti egli fu lieto di rispondere alle mie domande, anche perché la moglie Liliana si era occupata dei documenti di casa Martino (i Giordano custodiscono tuttora i fascicoli riguardanti la ex direttrice del lager).
 Dalla voce del signor Giordano seppi che la donna (nata il  6-7-1905 e deceduta il 2 maggio 1975) apparteneva alla stimata famiglia vinchiaturese dei Martino, che era chiamata Rina, e che aveva il diploma magistrale. Ma, in ossequio alla mentalità dell’epoca, non aveva mai varcato la soglia di un’aula scolastica come maestra.
Gli anni erano trascorsi uguali e monotoni, intanto, portando via la sua giovinezza, e con essa, le speranze di una vita  piena, veramente vissuta.
Dei suoi pretendenti, nessuno l’aveva portata all’altare, e, nella società di allora, la donna contava poco o nulla,  senza l’anello matrimoniale al dito.
Certo, continuò il mio informatore, da quando il fratello Nicola aveva aperto lo studio medico, le giornate le riempiva lo stesso. Lì si occupava di tutto, accoglieva i pazienti sulla porta, assisteva il fratello, bendava, medicava, distribuiva farmaci.
Snella e di media  statura,  Rina aveva un temperamento forte, e chi aveva “assaggiato” l’ago delle sue siringhe se n’era accorto sulla sua... pelle.
Lei ormai si era convinta che anche con le rughe  avrebbe continuato a passare il suo tempo tra farmaci e malati.

Invece, la svolta arrivò con l’ordine di funzionamento del campo di Vinchiaturo, dove già tra luglio e agosto del 1940 cominciarono ad affluire le prime ebree sospette.

Quali pensieri avranno agitato la mente della signorina, all’idea del potere che avrebbe esercitato di lì a poco? Avrà visto il nuovo, “prestigioso” incarico, come un’occasione da non perdere? Di sicuro, sarebbe stata sotto agli occhi di tutti, sarebbe stata criticata al minimo errore, alla più piccola debolezza…Meno male che il fratello Nicola, nominato medico delle internate, l’avrebbe sostenuta con la sua presenza.

 La sua giornata, adesso, era minuziosamente scandita. Doveva far rispettare i tre appelli giornalieri delle internate, che, a parte qualche antifascista italiana e una giovanissima nomade, erano russe, polacche, austriache, ungheresi, ebree straniere ed ex jugoslave, molte delle quali, presumibilmente al solo scopo di giustificarne la reclusione, erano registrate come soubrette o prostitute. Occorreva  controllare i pacchi e la corrispondenza, denunciando agli organi competenti eventuali infrazioni o irregolarità.
 La promiscuità di donne di lingue, religioni, nazionalità, tradizioni e abitudini diverse rendeva più difficile la convivenza collettiva, e perciò bisognava ad ogni costo mostrare polso forte, come risulta dalle ricerche sinora date alle stampe.
I pregiudizi religiosi verso le ebree erano motivo frequente di contrapposizioni e litigi anche violenti.

Nelle lettere pubblicate fino ad oggi le internate parlano di “inferno”, riferendosi al campo, che in effetti passava per essere particolarmente duro, e considerato come punitivo per chi vi era destinato. Ognuna cercava di andare via, accampando mille ragioni, e raccomandandosi a chi poteva.
 Il campo di Vinchiaturo, per la sua triste nomea, faceva il paio con quello di Solofra, vicino ad Avellino.
Chiedo al mio informatore, signor Giordano, se ricordava qualcuna della internate.
Una delle più ammirate, risponde dopo un breve silenzio, quella che faceva sognare i giovani di Vinchiaturo, era una polacca avvolta nella sua mantella grigia che avevano chiamato “Biancaneve” per l’incarnato chiaro, gli occhi azzurri e le lunghe chiome bionde.
Purtroppo la libera uscita si faceva verso la campagna e sempre sotto scorta.
Infatti, c’era pronto, nei paraggi del campo, un nugolo di giovanotti che si metteva  a seguire le donne, mangiandosele con gli occhi, ma era pressoché impossibile avvicinarle. Inoltre la direttrice aveva assunto un guardiano vecchio e brutto che avrebbe tenuto le donne al riparo da storie sentimentali. Infatti questo “cerbero”, un carabiniere soprannominato “Popònce”, cioè “Orco cattivo” per la sua scarsa avvenenza, aveva il suo da fare per allontanare i più intraprendenti, i quali si appostavano nei pressi della chiesa, quando le internate si recavano a messa.
Il campo rimase attivo fino all’annuncio dell’armistizio: il 10 settembre 1943 il Capo della Polizia emanò le disposizioni di proscioglimento delle prigioniere, che, appena riavuta la libertà, si dispersero in ogni direzione, raggiungendo, tra mille peripezie e con mezzi di fortuna, i paesi di origine.

 Dopo quel fatidico 8 settembre 1943 i tedeschi, per rinforzare la linea Gustav, stabilirono tre linee difensive, una delle quali, la linea Victor, passava vicino a Vinchiaturo: qui essi si stabilirono, creando preoccupazione nella popolazione.
Lo stesso mese il comandante Montgomery situò il comando militare nelle case delle famiglie Iacampo e Spensieri.
Ai primi di ottobre, poi, gli aerei alleati cominciarono a sganciare le bombe su piazza Municipio; l’obiettivo era l’asilo d’infanzia “Padre Ernesto D’Aquila” dove i tedeschi avevano depositato materiale bellico mettendo l’insegna della Croce Rossa sul tetto dell’edificio. I feriti durante i bombardamenti erano tanti e venivano alloggiati un po’ dovunque.
Nicola Martino aveva un gran da fare a curare i feriti che continuavano ad affluire.
Il 15 ottobre Vinchiaturo fu conquistata: il piano Montgomery era riuscito.
I soldati canadesi allestirono un ospedale militare da campo nella scuola elementare, offrendo i soccorsi necessari agli abitanti.

Dopo l’armistizio, la direttrice fu tra i tanti esponenti del regime, come il compaesano Nicola Pistilli, padre di Liliana, o come lo scrittore-editore don Angelo Tirabassi della vicina Oratino, a conoscere, sia pure per pochi giorni,  i disagi della prigione.

Scomparso il fratello Nicola, l’ex direttrice cercò di  occupare come meglio poteva le sue giornate. Per fortuna qualche buona amicizia c’era ancora, e lei la coltivava volentieri, asserisce il mio informatore, signor Giordano, e poi c’erano da amministrare i beni di famiglia, cosa che lei ha fatto fino alla sua morte, sopraggiunta il 2 maggio 1975.
 Sollecita nel sostenere la Chiesa cattolica in Italia e all’estero, ha contribuito generosamente alla ricostruzione delle chiese di Vinchiaturo danneggiate dalla guerra, e alla risistemazione del camposanto.

Chissà che, con l’avvicinarsi delle ombre della fine, le vicende vissute durante il secondo conflitto mondiale non abbiano  popolato la sua solitudine.
Rita Frattolillo©2017 tutti i diritti riservati

Bibliografia
 Raffaele Colapietra, 1915-1945 Trent’anni di vita politica nel Molise, Nocera edit., 1975, p. 209
AA.VV., Le leggi razziali del 1938 e i campi di concentramento nel Molise, IRRE Molise, 2004, p.515
Laura Primiani, I campi di concentramento nel Molise, in Vinchiaturo ricorda, Ass. Turistica Pro Vinchiaturo, Vinchiaturo, 2005
Alba Ficca, Testimoni d’oggi, in Le leggi razziali del 1938 e.., op.cit,  p.519

Ada Trombetta, 1943-1944…e fu guerra anche nel Molise, Arti grafiche La Regione, Campobasso 1993, p. 108.

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