Donne internate |
Il giorno della memoria. La storia di Caterina Martino e del campo
di internamento di Vinchiaturo è tratta dal libro “IL TEMPO SOSPESO. DONNE
NELLA STORIA DEL MOLISE”, di Rita Frattolillo e Barbara Bertolini, edito da
Libreria editrice Filopoli.
Caterina Martino di Rita Frattolillo
Di lei si sa solo quel poco che è trapelato sinora, e cioè che
apparteneva ad una rispettata famiglia di Vinchiaturo allineata con il regime
durante il periodo fascista, che non era sposata, e che svolse la funzione di
direttrice del campo di concentramento nel suo paese.
Forse suonerà strano che nel nostro Molise siano esistiti i
campi di internamento: sono ancora molti coloro che ignorano che neanche la
nostra regione si è sottratta alla vergogna di quella realtà.
Ciò a causa del silenzio che per decenni è sceso su quell’aspetto
del nostro passato, silenzio dovuto anche ad una comprensibile – ma non
giustificabile – rimozione operata su quel capitolo niente affatto glorioso
della nostra storia recente.
E invece, quando furono emanate le leggi razziali, nel 1938, ai
luoghi scelti per il confino dei dissidenti, sospettati o malvisti che fossero
dal regime, si aggiunsero i siti individuati come adatti per la sistemazione
dei lager.
In Italia nei primi mesi di guerra ne furono allestiti circa
40, sempre in località decentrate, meno
politicizzate, e per lo più vicine a
scali ferroviari.
Nei paesi del Molise, già prima di quella data erano cominciate ad
affluire facce nuove, persone che, a torto o a ragione, erano considerate
contrarie all’ideologia mussoliniana e perciò confinate. Bastava poco per
essere mandati al confino, bastava un’amicizia ritenuta sospetta o possedere
libri “proibiti”.
A Larino, per esempio, dal 1937 al 1940 fu confinata una donna
bolognese, Libera Teresa Arstani, rea di possedere i libri di Arturo Labriola e
di Luigi del Pane.
Capitava pure che i
dissidenti antifascisti fossero ospitati in abitazioni private; così, finirono
a Vinchiaturo, in casa Giordano (come testimonia Guido Giordano), due
antifascisti, Giannetto Baldi, proveniente da Roma, e Giovanni Marziale di
Monte Urano (Ascoli Piceno).
Particolarmente malvisti perché sospettati di spionaggio a causa
della conoscenza delle lingue erano poi gli stranieri residenti in Italia.
Molti di essi andarono ad affollare i campi di internamento allestiti in diverse località del Molise:
Agnone, Bojano, Baranello, Casacalenda, Isernia e Vinchiaturo. Nella nostra
regione furono circa 670, di cui 292 ebrei di diversa nazionalità.
Qui l’alloggiamento individuato
come campo era ubicato presso un edificio privato a tre piani, di proprietà
della famiglia Nonno, posto – ironia della sorte - in via della Libertà, una
strada parallela al Corso centrale del paese.
Provvisto di finestre con inferriate e impianto elettrico, era però privo di servizi
igienici idonei. Al pianoterra vennero
allestiti il refettorio e la cucina, che era a gestione esterna. Al primo piano
erano tre camere da letto ed un soggiorno, al secondo altre cinque camere, con
due latrine e altrettanti lavandini. Gli “arredi” di ogni camera erano ridotti
all’essenziale. Gli ispettori del Ministero dell’Interno lo ritennero idoneo ad
accogliere 50 internate, mentre, secondo gli emissari della Croce Rossa
internazionale che visitarono il campo il 21 giugno del 1943, esso poteva
ospitarne non più di 35.
L’8 giugno 1940 giunsero da Roma le prescrizioni che
perfezionavano il funzionamento del campo, che, a destinazione esclusivamente
femminile, sarebbe stato diretto dal podestà di Vinchiaturo coadiuvato da una
direttrice, la signora A.I.
Ma ad esercitare effettivamente la funzione fu la figlia di
costei, R.M., Caterina Martino detta Rina.
E’ a questo punto, dunque, che entra in scena un personaggio
femminile che rappresenta un netto scarto rispetto all’immagine e ai ruoli
tradizionali della donna.
Dalle indagini più recenti
riguardanti le leggi razziali del 1938 è venuto fuori il profilo – sia pure
dipinto a larghi tratti ̶ di una donna severa e autoritaria, quale, del
resto, il suo ruolo di direttrice di un campo esigeva.
Certo, sorprende, almeno a
leggere le varie testimonianze riferite, la naturalezza con cui lei si è calata
nella parte di chi sta dall’altra parte della barricata, dalla parte degli
oppressori.
L’aggettivo più ricorrente in bocca alle persone rintracciate dai
ricercatori è “intransigente”.
Leggiamo che il regime di «detenzione del
campo era reso ancora più rigoroso dal temperamento della direttrice, energica,
ma non tiranna, “ferrea tedesca”» e
che lei «non ammette deroghe o eccezioni alle regole imposte» (Alba
Ficca).
Infatti, «le internate sono tenute al rispetto degli orari, e,
in caso di ritardo, viene loro proibito
dalla direttrice di consumare i pasti», e poco importa se i ritardi
nell’orario della prima colazione sono dovuti al sovraffollamento e alla
carenza dei servizi igienici.
Intransigente, ma non inflessibile, se è vero, come ricordano le
testimonianze, il contrasto nell’atteggiamento tenuto dalla direttrice (e dalle
inservienti) nei confronti delle detenute ebree, sottoposte a stretta
sorveglianza, mentre le italiane [chiamate “fiumane”, n.d.r.] erano più “ben
viste” e ricevevano qualche privilegio.
Come quello di poter uscire
oltre l’orario stabilito per le due “passeggiate” giornaliere, perché si
era protette dalla direttrice o dal medico stesso del campo, che era lo stimato
e umano medico Nicola Martino, fratello della direttrice. Una delle
“privilegiate” era la pianista Tamara, che probabilmente doveva alla sua
abilità musicale l’occhio di riguardo della direttrice.
Ad aggiungere un altro tocco a
questo profilo femminile così fuori norma, la testimonianza che «le internate non se ne stavano tutto
il giorno oziose, ma che anzi facevano lavori a maglia, all’uncinetto, qualcuna
dipingeva, qualche altra ricamava. Così Brigida [un’inserviente, n.d.r.]
promuoveva e sponsorizzava i lavori da cui le più indigenti potevano trarre
qualche introito e lei, chissà, forse una piccola percentuale ».
Se questi sono i fatti, e non se ne saprà altro finché i fascicoli
che riguardano questa donna rimarranno
sotto chiave, l’impressione che si ricava dai ricordi delle testimoni è quella di una donna dal polso molto forte,
che ha dato prova di grande intransigenza, ma non priva di umanità, attenta a
salvaguardare la dignità delle recluse, assecondando le loro inclinazioni
artistiche e i loro bisogni lavorativi, contrariamente a quanto accadeva negli altri lager, dove ad essere annientata
era anzitutto la dignità degli internati.
******
Poi, un giorno, mi trovavo a Vinchiaturo per avere notizie
dettagliate su Liliana Pistilli dal marito, Guido Giordano.
Gentilmente, il padrone di casa mi mostrava, precedendomi nelle
varie stanze della villetta, gli oggetti
cari alla consorte scomparsa (ma quanto presente!) e i cimeli di una famiglia
che aveva molto da raccontare.
In uno degli ambienti, appeso alla parete, un acquerello dai toni
caldi attirò la mia attenzione. Non per
la grandezza e neanche per il valore artistico, ma per il senso di serenità che
emanava.
Rappresentava una tranquilla scena di paese, con tre donne che,
avvolte nello scialle, erano intente a conversare; sullo sfondo, delle case e,
in lontananza, montagne violette. In basso, sulla destra, si intravedeva una
firma, Wuda, e una data, 1943.
Il padrone di casa si
affrettò a spiegarmi che quella era solo una copia, poiché l’originale
apparteneva ad un professore napoletano, Carlo Raso.
Ma la cosa sorprendente era che esso - aggiunse subito
dopo - era stato dipinto nel campo di internamento di Vinchiaturo da una delle
internate, la pittrice estone Wuda Paab (vedova Luse, nata in Estonia), la
quale, con quel dono, aveva voluto ringraziare la direttrice del campo per la
sua umanità. Mi astenni dal chiedere per quali vie il quadro era arrivato a
Napoli, poiché mi interessava di più la figura della “ferrea tedesca”
direttrice di quel lager.
Tuttavia, l’esistenza di quel quadro mi parlava chiaramente della
riconoscenza verso la direttrice del campo da parte della pittrice estone. Mi
tornarono allora in mente le parole delle testimoni relative all’atteggiamento
protettivo della Martino nei confronti delle artiste, come quelle riguardanti
la volontà della direttrice di tenere occupate nel lavoro le internate.
Nei piccoli centri, si sa, ci si conosce tutti, e il mio
anfitrione quasi sicuramente aveva
frequentato Caterina Martino.
Infatti egli fu lieto di rispondere alle mie domande, anche perché
la moglie Liliana si era occupata dei documenti di casa Martino (i Giordano
custodiscono tuttora i fascicoli riguardanti la ex direttrice del lager).
Dalla voce del signor
Giordano seppi che la donna (nata il
6-7-1905 e deceduta il 2 maggio 1975) apparteneva alla stimata famiglia
vinchiaturese dei Martino, che era chiamata Rina, e che aveva il diploma
magistrale. Ma, in ossequio alla mentalità dell’epoca, non aveva mai varcato la
soglia di un’aula scolastica come maestra.
Gli anni erano trascorsi uguali e monotoni, intanto, portando via
la sua giovinezza, e con essa, le speranze di una vita piena, veramente vissuta.
Dei suoi pretendenti, nessuno l’aveva portata all’altare, e, nella
società di allora, la donna contava poco o nulla, senza l’anello matrimoniale al dito.
Certo, continuò il mio informatore, da quando il fratello Nicola
aveva aperto lo studio medico, le giornate le riempiva lo stesso. Lì si
occupava di tutto, accoglieva i pazienti sulla porta, assisteva il fratello,
bendava, medicava, distribuiva farmaci.
Snella e di media
statura, Rina aveva un
temperamento forte, e chi aveva “assaggiato” l’ago delle sue siringhe se n’era
accorto sulla sua... pelle.
Lei ormai si era convinta che anche con le rughe avrebbe continuato a passare il suo tempo tra
farmaci e malati.
Invece, la svolta arrivò con l’ordine di funzionamento del campo
di Vinchiaturo, dove già tra luglio e agosto del 1940 cominciarono ad affluire
le prime ebree sospette.
Quali pensieri avranno agitato la mente della signorina, all’idea
del potere che avrebbe esercitato di lì a poco? Avrà visto il nuovo,
“prestigioso” incarico, come un’occasione da non perdere? Di sicuro, sarebbe
stata sotto agli occhi di tutti, sarebbe stata criticata al minimo errore, alla
più piccola debolezza…Meno male che il fratello Nicola, nominato medico delle
internate, l’avrebbe sostenuta con la sua presenza.
La sua giornata, adesso,
era minuziosamente scandita. Doveva far rispettare i tre appelli giornalieri
delle internate, che, a parte qualche antifascista italiana e una giovanissima
nomade, erano russe, polacche, austriache, ungheresi, ebree straniere ed ex
jugoslave, molte delle quali, presumibilmente al solo scopo di giustificarne la
reclusione, erano registrate come soubrette o prostitute. Occorreva controllare i pacchi e la corrispondenza,
denunciando agli organi competenti eventuali infrazioni o irregolarità.
La promiscuità di donne di
lingue, religioni, nazionalità, tradizioni e abitudini diverse rendeva più
difficile la convivenza collettiva, e perciò bisognava ad ogni costo mostrare
polso forte, come risulta dalle ricerche sinora date alle stampe.
I pregiudizi religiosi verso le ebree erano motivo frequente di
contrapposizioni e litigi anche violenti.
Nelle lettere pubblicate fino ad oggi le internate parlano di
“inferno”, riferendosi al campo, che in effetti passava per essere
particolarmente duro, e considerato come punitivo per chi vi era destinato.
Ognuna cercava di andare via, accampando mille ragioni, e raccomandandosi a chi
poteva.
Il campo di Vinchiaturo,
per la sua triste nomea, faceva il paio con quello di Solofra, vicino ad
Avellino.
Chiedo al mio informatore, signor Giordano, se ricordava qualcuna
della internate.
Una delle più ammirate, risponde
dopo un breve silenzio, quella che faceva sognare i giovani di Vinchiaturo, era
una polacca avvolta nella sua mantella grigia che avevano chiamato “Biancaneve”
per l’incarnato chiaro, gli occhi azzurri e le lunghe chiome bionde.
Purtroppo la libera uscita si
faceva verso la campagna e sempre sotto scorta.
Infatti, c’era pronto, nei paraggi
del campo, un nugolo di giovanotti che si metteva a seguire le donne, mangiandosele con gli
occhi, ma era pressoché impossibile avvicinarle. Inoltre la direttrice aveva
assunto un guardiano vecchio e brutto che avrebbe tenuto le donne al riparo da
storie sentimentali. Infatti questo “cerbero”, un carabiniere soprannominato
“Popònce”, cioè “Orco cattivo” per la sua scarsa avvenenza, aveva il suo da
fare per allontanare i più intraprendenti, i quali si appostavano nei pressi
della chiesa, quando le internate si recavano a messa.
Il campo rimase attivo fino all’annuncio dell’armistizio: il 10
settembre 1943 il Capo della Polizia emanò le disposizioni di proscioglimento
delle prigioniere, che, appena riavuta la libertà, si dispersero in ogni
direzione, raggiungendo, tra mille peripezie e con mezzi di fortuna, i paesi di
origine.
Dopo quel fatidico 8 settembre 1943 i
tedeschi, per rinforzare la linea Gustav, stabilirono tre linee difensive, una
delle quali, la linea Victor, passava vicino a Vinchiaturo: qui essi si
stabilirono, creando preoccupazione nella popolazione.
Lo stesso mese il comandante
Montgomery situò il comando militare nelle case delle famiglie Iacampo e
Spensieri.
Ai primi di ottobre, poi, gli
aerei alleati cominciarono a sganciare le bombe su piazza Municipio;
l’obiettivo era l’asilo d’infanzia “Padre Ernesto D’Aquila” dove i tedeschi
avevano depositato materiale bellico mettendo l’insegna della Croce Rossa sul
tetto dell’edificio. I feriti durante i bombardamenti erano tanti e venivano alloggiati
un po’ dovunque.
Nicola Martino aveva un gran da
fare a curare i feriti che continuavano ad affluire.
Il 15 ottobre Vinchiaturo fu
conquistata: il piano Montgomery era riuscito.
I soldati canadesi allestirono un
ospedale militare da campo nella scuola elementare, offrendo i soccorsi
necessari agli abitanti.
Dopo l’armistizio, la direttrice
fu tra i tanti esponenti del regime, come il compaesano Nicola Pistilli, padre
di Liliana, o come lo scrittore-editore don Angelo Tirabassi della vicina Oratino,
a conoscere, sia pure per pochi giorni,
i disagi della prigione.
Scomparso il fratello Nicola, l’ex
direttrice cercò di occupare come meglio
poteva le sue giornate. Per fortuna qualche buona amicizia c’era ancora, e lei
la coltivava volentieri, asserisce il mio informatore, signor Giordano, e poi
c’erano da amministrare i beni di famiglia, cosa che lei ha fatto fino alla sua
morte, sopraggiunta il 2 maggio 1975.
Sollecita nel sostenere la Chiesa cattolica in
Italia e all’estero, ha contribuito generosamente alla ricostruzione delle
chiese di Vinchiaturo danneggiate dalla guerra, e alla risistemazione del
camposanto.
Chissà che, con l’avvicinarsi
delle ombre della fine, le vicende vissute durante il secondo conflitto
mondiale non abbiano popolato la sua
solitudine.
Rita Frattolillo©2017 tutti i
diritti riservati
Bibliografia
Raffaele Colapietra, 1915-1945 Trent’anni di vita
politica nel Molise, Nocera edit., 1975, p. 209
AA.VV., Le leggi razziali del 1938 e i campi di
concentramento nel Molise, IRRE Molise, 2004, p.515
Laura
Primiani, I campi di concentramento nel Molise, in Vinchiaturo
ricorda, Ass. Turistica Pro Vinchiaturo, Vinchiaturo, 2005
Alba
Ficca, Testimoni d’oggi, in Le leggi razziali del 1938 e..,
op.cit, p.519
Ada
Trombetta, 1943-1944…e fu guerra anche nel Molise, Arti grafiche La
Regione, Campobasso 1993, p. 108.
Nessun commento:
Posta un commento