di Rita Frattolillo
Delle numerose ondate migratorie che, spinte dalla disperazione, dalla seconda metà dell’Ottocento hanno varcato l’oceano spopolando il Molise e lasciando le donne ad affrontare da sole la difficile condizione di vedove bianche, è rimasta testimonianza nelle lettere, scritte su paginette di quaderno ingiallite dal tempo con mano malferma e in dialetto, inviate dai nostri manovali e “artieri” ai familiari. Sono quelle povere frasi sgrammaticate a gettare luce sugli aspetti crudi e duri della loro quotidianità di emigrati.
Poi sono arrivati i Pietro Corsi (classe 1937) e i Giose Rimanelli (classe 1926), emigranti di successo e prolifici autori, a creare, direttamente in italiano o in inglese, l’epopea migratoria, scavando nelle stigmate della propria identità lacerata.
Quindi c’è stato il passaggio ad autori di lingua inglese come Nino Ricci (1958), che, pur appartenendo alla generazione nata oltreoceano, hanno attinto, nelle loro creazioni letterarie, ai risvolti spesso allucinanti dell’emigrazione, sull’eco tumultuosa di una tensione in bilico tra il peso delle radici e l’esigenza di conoscere il proprio io.
Ultimamente lo scenario è cambiato e il panorama si è esteso, contando autori come Carole Fioramore David, Joe Fiorito, Antonio D’Alfonso, Filippo Salvatore, oltre al vecchio e grande Don DeLillo (classe 1936), e si è anche diversificato, perché alcuni di essi, come Marco Micone, Luigi Bonaffini, Johnatan Galassi, non si limitano a scrivere, ma traducono.
Sicché l’uso dell’italiano si è ridotto, quando non è scomparso del tutto, inequivocabile dato di una minore diffusione all’estero dell’italiano quale lingua letteraria , sia pure di nicchia.
I romanzi e i saggi non solo sono redatti in inglese o francese, ma, accanto al veicolo linguistico, anche il contenuto è cambiato: l’ispirazione dei nuovi protagonisti del mondo letterario d’oltreoceano non ruota più intorno al “vecchio” nucleo tematico dell’emigrazione, o almeno non esclusivamente intorno ad esso.
Tale riflessione ha preso corpo dopo la lettura – avvincente – del romanzo di Mary Di Michele, canadese di Lanciano, che, uscito con il titolo “Tenor of love”, è stato poi tradotto in italiano da Gabriella Iacobucci con il titolo “Canto d’amore”.
Qui l’emigrazione non costituisce l’ossatura del plot, che è l’ingarbugliata vita sentimentale del grande tenore napoletano.
Certo, anche Caruso è un emigrante, ma di lusso, uno che giunge in America sull’onda della fama, uno che quando sente avvicinarsi la morte, dopo 17 anni trascorsi in America mietendo successi, esprime il desiderio di morire in patria. Ma tutto finisce qui, anzi non sarebbe neanche incominciato se la Di Michele, durante un suo soggiorno italiano, non fosse stata affascinata dalla canzone “Caruso” di Lucio Dalla, ascoltata per caso; da lì le ricerche sul grande cantante, di cui lei non aveva mai neanche sentito parlare.
A me sembra che in “Canto d’amore” il rapporto con le radici sia appena sfiorato, e anche la visione dell’Italia che, nella finzione letteraria, emerge dalle parole della moglie di Enrico Caruso, Dorothy, somiglia parecchio a quella superficiale e approssimativa di certi turisti stranieri.
Bravura della scrittrice nel ricreare lo “sguardo” americano di Dorothy, oppure genuina percezione che del nostro Paese ha l’autrice?
L’impressione, leggendo il romanzo, è che il cordone ombelicale con la terra d’origine si sia per lo meno allentato, e che la di Michele non “senta” quel mal du pays per l’Italia come un figlio che se ne è dovuto allontanare.
Se questo non è un caso isolato, ma segnale di una mutazione, è sicuro indizio di “crescita”: i figli e nipoti dei manovali e artigiani di una volta hanno studiato, hanno salito i gradini della scala sociale e professionale, affermandosi, e si sono integrati nel sistema.
Questo non può che essere motivo di orgoglio per la capacità dimostrata dai discendenti dei nostri emigrati di essersi saputi inserire nella realtà in cui vivono, pur se il “salto” dall’italiano all’inglese o francese significa, per noi rimasti nella madrepatria, che potremo gustare la nuova letteratura solo se e quando tradotta.
Conseguenza di questa mutazione naturale quanto ineluttabile è la trasformazione del ruolo del traduttore.
Fino a ieri intento esclusivamente a rendere al meglio nella lingua di arrivo le sfumature e lo spirito dell’opera originale, oggi è colui che, essendo spesso a contatto diretto con i club degli ex emigrati, è in grado di individuare, segnalare all’editore italiano e quindi introdurre da noi i nuovi scrittori italo-americani. E’ il caso di Gabriella Iacobucci, la “nostra” Fernanda Pivano, traduttrice, tra l’altro, di Frank Colantonio (“Sui cantieri di Toronto”), di Nino Ricci (trilogia raccolta in “La terra del ritorno”), e della Di Michele, da lei conosciuta ad un convegno mentre la scrittrice aveva già cominciato a mettere mano a “Tenor of love”.
Traghettare e diffondere la letteratura italo-americana non è impegno da poco, ma ad esso se ne aggiunge un altro non meno importante, perché può succedere che il testo originale contenga improprietà e approssimazioni riguardanti, ad esempio, i nostri detti e le nostre tradizioni, comprensibili in chi è nato e vive a migliaia di chilometri dall’Italia, e che spetta al traduttore “raddrizzare”. Forse perciò ancora oggi qualcuno dice traduttore-traditore, quando, piuttosto, si tratta di portare una cultura dentro un’altra, senza travisarne nessuna.
C’è chi si è meravigliato nel vedere comparire, in copertina, il nome del traduttore.
Al contrario, trovo giusto che il lavoro non facile e il ruolo ormai dilatato del traduttore trovino un riconoscimento “ufficiale”, anche perché, sia pure su un piano diverso, egli, rielaborando frase dopo frase un testo, in un certo senso lo crea, e in definitiva è autore senza esserlo.
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