Qual è stato il motivo, la lettura, l’incontro, che ti ha fatto capire, per la prima volta, che avresti deciso di dedicarti alla scrittura?
Questa è la domanda che Molise d’Autore ha posto agli scrittori. A prima vista poteva sembrare una domanda scontata, banale, ma le loro risposte non lo sono state. Dal taglio telegrafico a quello articolato essi ci svelano le loro prime letture, ma anche una parte importante del loro vissuto e della loro personalità. (Barbara Bertolini)
***°°°***
Ecco le risposte di 9 autori così come ci sono pervenute:
Carla Maria Russo
Non mi sono mai posta l'obiettivo di diventare scrittrice. Non era nei miei programmi. Sono sempre stata e resto una appassionata lettrice.
Alla scrittura sono arrivata coltivando la mia passione per la ricerca storica, nel corso della quale mi sono imbattuta in storie bellissime e struggenti, che mi spiaceva lasciar cadere di nuovo nell'oblio. Mi sono così ritrovata a domandarmi se non volessi provare a raccontarle agli altri.
Tuttavia la prima volta in cui mi sono davvero cimentata con la scrittura è stato nell'estate del 1998. Mia figlia Gaia, che aveva allora dodici anni, mi ha domandato di scrivere un romanzo adatto a lei. Così è nato il mio primo libro: BARTOLOMEO ALLA PRIMA CROCIATA.
A Gaia è piaciuto tanto che mi ha convinto a vincere l'imbarazzo e a presentarlo a una casa editrice.
Dopo alcuni mesi di attesa, ho saputo che il libro era stato accettato. E così è cominciata l'avventura...
<<<>>>
Francescopaolo Tanzj
La lettura a circa 16 anni (dopo una scorpacciata di Salgari, Verne e Dumas) di:
- I fratelli Karamazov di Dostojevschij
- Avere e non avere di Hemingway
- Howl di Allen Ginsberg
<<<>>>
Giuseppe Tabasso
Non esiste una prima volta ma una catena di volte e non esiste propensione alla scrittura senza incontri con la lettura. Per me l’incontro iniziale avvenne, anni ’40, con due scrittori: Conrad (Martin Eden) e soprattutto col dimenticato Giovanni Papini di cui scoprii su una bancarella il suo “Crepuscolo dei filosofi”. Di lui lessi poi quasi tutto, affascinato da uno stile irruente, talvolta iconoclasta. Per i giovani è fondamentale innamorarsi di uno scrittore, di assorbirne lo stile, quasi di cannibalizzarlo. Poi però bisogna liberarsene, specie per chi – ed è il mio caso – decide di dedicarsi al giornalismo. La mia teoria, infatti, è che il destino sociale della scrittura giornalistica comporta fatalmente un suicidio stilistico e, dunque, che il buon reporter deve emendarsi dalle tentazioni della letterarietà. Ma è certo la letteratura la base sulla quale un giornalista può costruire la sua capacità di rappresentazione della realtà quotidiana.
<<<>>>>
Rita Frattolillo
Sono essenzialmente due i meccanismi che mettono in moto la mia voglia di scrivere. Il primo: quando mi preme dire qualcosa spinta da un impulso incontenibile (per esempio sotto l'impressione di un quadro appena visto o di una lettura appena fatta, o di fronte ad un avvenimento che mi fa reagire), allora scrivo di getto, difficilmente riesco a reprimermi.
Secondo: a volte, specie di notte, il cervello si mette in azione, e comincia a scavare; scende in miniera, e spesso risale con qualcosa, arriva un'intuizione, una storia da dire. Allora prendo la penna, parto a vado. Quando scrivo, mi affascina particolarmente la creazione, che mi dà un senso di libertà totale, e la possibilità di lavorare sulle parole. Sì, perché dare i nomi alle cose significa avere coraggio, ribellarsi agli stereotipi, alle strutture che incatenano la lingua. Se è vero che le storie sono state già tutte narrate, è infatti il "modo" che cambia, e che distingue uno scrittore dall'altro. Egli mette assieme due parole che erano separate, e dal momento che lo fa, la realtà che gli era estranea diventa sua, e nello stesso tempo suscita emozione in chi legge. Penso, per concludere, che dovremmo distinguere lo "scrivente" dallo "scrittore" vero e proprio, che è, a mio avviso, merce piuttosto rara.
<<<>>>
Simonetta Tassinari
Mi afferrò il desiderio di scrivere non appena ebbi terminato di leggere de "L'isola dei delfini blu", il mio primo libro. Dovevo essere all'incirca in seconda elementare; ne conservo ancora la copia, che provvidi, già all'epoca, a sottolineare e a riempire di appunti, perché avrei voluto che la storia avesse uno sviluppo diverso.
<<<>>>
Nino Ricci
La prima volta che ho pensato di diventare uno scrittore avevo undici o dodici anni. All'epoca ero un divoratore di libri, e a un certo punto mi venne in mente che da qualche parte ci doveva essere qualcuno che scriveva tutti quei libri, e che un giorno avrei potuto scriverne uno anch'io. Avevo già mostrato una propensione per la scrittura e anzi ero noto tra i miei compagni di scuola per le mie lunghe storie. Scrissi il primo romanzo in quinta, riempiendo quasi un quaderno e mezzo. Era la storia di una grossa bicicletta tuttofare che fungeva anche da navicella spaziale e da macchina per viaggiare nel tempo. Gran parte della trama era presa dagli spettacoli in TV che allora seguivo (per esempio, una serie dal titolo La galleria del tempo) come pure da una popolare serie di film e libri di Disney che parlavano di una Maggiolino Volkswagen chiamata Herbie. Fu solo quando ebbi vent'anni, comunque, che dopo parecchi tentativi falliti realmente feci uno sforzo concreto per scrivere seriamente. Mi iscrissi a un master di scrittura creativa. Il suo merito principale fu quello di fornirmi delle condizioni ambientali strutturate per sviluppare la disciplina di scrivere con un ritmo giornaliero. Fu grazie a quell'esperienza che scrissi il mio primo romanzo, Vite dei santi. (Traduzione di Gabriella Iacobucci)
<<<>>>
Antonio D’Alfonso
La scrittura è stato il mio segreto. Un Caro Diario intellettuale. Era nel 1968 quando tutto è incominciato per me. Avevo 15 anni, credo, meno, quando ho deciso di servirmi della stilografica d’oro che mia nonna Lucia di Guglionesi, tramite i miei genitori, mi aveva dato come regalo-souvenir del Molise. Il diario non è durato troppo a lungo, subito l’intimo si è trasformato in poesie, spesso in due lingue: in francese e in inglese. Ma c’è voluto molto tempo, quasi cinque anni, prima che io abbia avuto il desiderio di pubblicare le cose che scrivevo.
Perché pubblicare?, questa è la vera domanda da fare. Scrivere, tutti scrivono. Però la cosa che mi sembra diversa tra me e l’altro, la vera cosa che mi separa dall’altro è la pubblicazione. Perché offrire agli altri quello che hai scritto per te stesso nel privato della tua stanza? Certo c’è un po’, forse anche un po’ molto, di vanità. Ma la vanità è la cosa più anti-letteratura che ci sia. La vanità ti aiuta a muovere i primi anni, ma presto, la vanità sparisce. Non c’è abbastanza spazio nella letteratura per la scrittura e per la vanità. La prima cosa che parte è proprio la cosa che ti ha spinto verso l’altro, il lettore. Una volta che il terzo libro è stato pubblicato, non rimane più niente della tua vanità. L’unica cosa che esce tra te e l’altro è questa parola delicata, fragile. chi è questo altro?
Quest’altro è la società con la quale vuoi comunicare con queste poche parole che rubi dai libri degli altri… Scrivere diventa subito un modo di parlare e di discutere con gli altri.
Ritorniamo velocemente al punto di partenza: ti rendi conto che scrivere non è parlare con te stesso, ma parlare con l’altro. È la parola che scivola fuori da te e abbraccia l’altro. Scrivere è stato per me il modo migliore di parlare con il mio vicino… Scrivendo ho imparato a parlare dal vivo. Prima di scrivere non sapevo parlare, barbugliavo. Alla fine mi rendo conto che non è mai esistito nessun segreto, sempre c’è stato il desiderio di essere amato dall’altro. Scrivere mi ha permesso di esistere come cittadino, di qui di là dal mondo.
<<<>>>
Pietro Corsi
Mi sono interessato alla lettura quando, in prima media, al Caradonio-Di Blasio di Casacalenda, vinsi un concorsino indetto dalla professoressa (Sisetta Mancini) che riguardava, se ben ricordo, un tema in italiano. Per premio ricevetti un libro per me prezioso: I tre moschettieri!
Poi però successe qualcosa. Andai a frequentare la seconda media alla statale di Larino. Il professore era Paolo (Paoluccio) Minni. Non credo che avesse simpatia per gli alunni della vicina ma Casacalenda, e certamente nutriva una spiccata antipatia per me. O almeno, così mi sembrava. Io ero un asino in latino, perché ero arrivato mentre loro, a Larino, erano molto più avanti di noialtri di Casacalenda. Non sono mai riuscito a raggiungerli, anzi facevo fatica a rimanere... indietro! Il professor Minni pensò bene di bocciarmi in latino con uno zero spaccato. Questo mi andava bene, lo sapevo. Ma siccome le sue materie erano anche italiano, storia e geografia, per buona misura decise di aggiungerci anche quelle. Ed anche se (a detta degli altri alunni), io potevo certamente essere considerato il migliore della classe in italiano e, forse, anche storia.
Questo incidente causò il mio abbandono della scuola. Decisi, cioè, che la scuola non faceva per me. O che io non facessi per la scuola. Insomma, oggi posso riconoscerlo, ero incazzato e le incazzature giovanili sono sempre imprevedibili e pericolose.
La preside, Vitiello, venuta a conoscenza dell'incidente, si preoccupò di farmi raggiungere dalla sua preghiera di presentarmi a settembre, per farmi giustizia. Non lo feci, non mi preparai e non mi presentai. Mi rinchiusi, invece, nella sede del circolo cattolico giovanile per tutta l'estate, e mi lessi tutti i libri della sua ben attrezzata biblioteca riclassificandoli, secondo un mio arbitrario giudizio, in un apposito inventario "ragionato".
Ecco, questo maturò in me l'interesse per la lettura. Che continuò anche quando, qualche anno dopo, cominciai a lavorare presso lo studio del notaio Lalli, nel Palazzo Ducale. Passavano, per il paese, rappresentanti delle più grandi case editrici di quei giorni, Mondadori, Einaudi, Rizzoli, per presentare le loro novità editoriali presso la Libreria De Magistris (ora defunta). Io, che al contrario di altri giovanotti guadagnavo già qualche soldino, ero il miglior cliente. Ho ancora, nella mia casa di Casacalenda, molte di queste edizioni anni Cinquanta, ora bruciate dalla polvere. In quei giorni, chi voleva leggere e non poteva comprarle libri, li prendeva in prestito da Pietro Corsi. E quando andai via, li prendeva in prestito, dalla mia piccola libreria, avvicinando mia sorella Nuccia. C'è ancora oggi una signora romana, dottoressa, che giura, ogni volta che la incontro, di essere diventata una avida lettrice grazie alla mia collezione di libri. E, bontà sua, mi ringrazia ma io, per la verità, non mi ricordo neanche: erano in tanti, in quei giorni, ad avvicinarsi alla mia fonte libraria.
Mentre lavoravo nello studio del notaio Lalli scoprii, sulla sua scrivania, un libro intitolato "Signora Ava", scritto da un guardiese, Francesco Jovine. Anche il Lalli era guardiese e, si diceva, era forse imparentato con Jovine. Cominciai a leggere anche quel libro, e presto me ne innamorai. Forse anche perché parlava di cose di casa.
E tuttavia, la passione per la scrittura maturò soltanto anni dopo, quando mi trasferii a Roma, anche se, mentre ero ancora in Molise, scrivevo articoletti "dalla provincia" per le pagine regionali di Paese Sera, Il Tempo, Il Messaggero.
A Roma ebbi la fortuna d’ incontrarmi con Giose Rimanelli e, tramite il mio studio di traduzioni e copisteria, con il paroliere napoletano Michele Galdieri. Con il Galdieri, cominciai a collaborare scrivendo programmi radiofonici. Era uomo di grande umanità, come ogni buon napoletano che si rispetti. Non lavorava mai senza che io fossi presente (infatti, smise di lavorare quando io lasciai Roma!). Gli dedicavo la tarda sera e le ore notturne, perché di giorno avevo i miei altri impegni. Questi includevano, anche, il mio aiuto all'amico fraterno Giose Rimanelli, in quei giorni alle prese con la stesura di Il mestiere del furbo, che aveva fretta di consegnare alle stampe. Era un libro complesso, cambiava di giorno in giorno e confessava l'inconfessabile. Io glielo battevo a macchina perché lui era troppo incazzato con il contenuto per concentrarsi anche sulla tastiera della macchina da scrivere. Solo dopo riuscii a capire il perché: quel perché che è, oggi, storia (anche se non ufficialmente riconosciuta) della letteratura italiana di quei giorni.
Ecco, con questo bagaglio di esperienze alle spalle, qualche anno dopo arrivai in Canada, a Montreal. Siamo alla fine della primavera del 1959. Ricevo un'offerta di lavoro presso il settimanale in lingua italiana “Il Cittadino Canadese”. Su quel giornale comincio a pubblicare anche (così, tanto per riempire le sedici pagine settimanali) qualche "racconto". Primo fra tutti, Onofrio Annibalini: emigrante, che maturerà, poi, nel mio primo libro, La Giobba.
Dopo” Il Cittadino” e la mia esperienza canadese, presi altre strade. Mai però dimenticando che scrivere era un mio dovere. Devo però a questo punto ammettere che se il mio bagaglio di avventure ha svegliato, in me, il mestiere di scrivere, di "narrare", non posso essere considerato un narratore di stampo intellettuale. Mi considero appena un... artigiano della narrazione. E questo però, mi va bene!
<<<>>>
Carole David Fioramore
Ragioni per scrivere
Fin dall’inizio della scuola elementare ero molto brava in francese. Mi sentivo valorizzata. Le suore apprezzavano la mia immaginazione e la mia padronanza della lingua sia orale che scritta. Adolescente, adoravo il teatro e pensavo diventare attrice. Ho dovuto rinunciare alla pratica di questa disciplina. La mia timidezza e la mancanza di fiducia in me stessa non si accordavano con il palcoscenico.
Frequentavo una scuola privata la cui clientela era composta quasi esclusivamente da ragazze della piccola e grande borghesia. Adolescenti bionde che praticavano lo sci, il tennis e l’equitazione contrariamente a me, il cui unico svago era rappresentato dalla lettura. E’ in questo periodo che mi sono sentita marginalizzata, esclusa. Non volevo appartenere al loro mondo né a quello dei miei genitori. A distanza di tempo, credo che questa esclusione spiega in buona parte la mia entrata nel mondo della letteratura.
Alla fine della scuola secondaria, ho deciso di iscrivermi a lettere nel mio collegio. Mia madre non approvava questa scelta; voleva che diventassi medico, avvocato o farmacista. Mia nonna materna (nata in Italia) aveva anche consigliato a mio padre di non sperperare i suoi soldi pagandomi degli studi universitari. Ero solo una ragazza dopotutto.
Incontri
Dopo gli studi universitari in letteratura, il mio incontro con un giornalista sportivo (nato in Italia, emigrato prima in Francia e poi nel Québec) è stato un momento determinante nella mia vita. Ho potuto da un lato riannodare pienamente con le mie origini italiane e dall’altro costeggiare un mondo che mi era fino a quel momento sconosciuto. Certo, ci sono stati anche dei professori, ma ben pochi. Ho avuto la fortuna di lavorare in una libreria del Quartiere latino a Montreal frequentato dai letterati emergenti dell’epoca. Editori, poeti, attori vi si davano appuntamento. E’ in questo posto che ho incontrato il mio editore, Hébert che continua sempre a sostenermi nel mio impegno nella scrittura.
Le letture
I primi incontri poetici sono stati determinanti: Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. La lettura di Antonin Artaud è stata un pugno nello stomaco. Poi gli scrittori americani della controcultura: Brautigan, Kerouac, Ginsberg. La cantante e poetessa Patti Smith è stata una rivelazione. C’è stata Marguerite Duras; tutte le ragazze della mia generazione sognavano di scrivere come lei. I miei anni di studi sono stati segnati dai classici francesi che ho rigettato, in seguito, per sostituirli con gli scrittori americani marginali. La mia identità di scrittrice è il risultato di questo meticciato.
(Traduzione di Barbara Bertolini)
Versione originale in francese della risposta di Carole David Fioramore
Des raisons pour écrire
Dès l’école primaire, je réussissais bien en français. J’y trouvais une certaine valorisation. Les religieuses appréciaient mon imagination et ma maîtrise de langue autant orale qu’écrite.
Adolescente, j’adorais le théâtre et je pensais même devenir comédienne. J’ai dû renoncer à la pratique de cette discipline. Ma timidité et le manque de confiance en moi ne faisaient pas bon ménage avec le fait de devoir monter sur les planches.
Je fréquentais une école privée dont la clientèle était composée presque exclusivement de filles de la petite et de la grande bourgeoisie. Des jeunes filles blondes qui pratiquaient le ski, le tennis et l’équitation contrairement à moi dont le seul loisir était la lecture. C’est à cette époque que j’ai commencé à me sentir marginale et exclue. Je ne voulais pas appartenir à leur monde ni à celui de mes parents. Avec le recul, je crois que cette mise à l’écart explique en bonne partie mon entrée en littérature.
À la fin de mon secondaire, j’ai décidé de m’inscrire en lettres dans un collège. Ma mère n’approuvait pas ce choix ; elle voulait que je devienne médecin, avocate ou pharmacienne. Ma grand-mère maternelle (née en Italie) avait même conseillé à mon père de ne pas gaspiller son argent en me payant des études universitaires. Je n’étais qu’une fille après tout.
Des rencontres
Après mes études universitaires en littérature, ma rencontre avec un journaliste sportif (né en Italie, émigré d’abord en France ensuite au Québec) a été un moment déterminant dans ma vie. J’ai pu d’une part renouer pleinement avec mes origines italiennes et d’autre part côtoyer un monde qui m’était jusque là inconnu. Certes, il y eu aussi des professeurs, mais il sont peu nombreux. J’ai eu la chance de travailler dans une librairie du Quartier latin à Montréal fréquenté par le milieu littéraire émergent de l’époque. Éditeurs, poètes, comédiens s’y donnaient rendez-vous. C’est à cet endroit que j’ai rencontré mon éditeur, François Hébert qui continue toujours de me soutenir dans ma démarche d’écriture.
Des lectures
Les premières rencontres poétiques ont été déterminantes : Baudelaire, Rimbaud, Verlaine. La lecture d’Antonin Artaud a été un coup de poing. Puis les écrivains américains de la contre- culture : Brautigan, Kerouac, Ginsberg. La chanteuse et poète Patti Smith a été une révélation. Il y a eu Marguerite Duras ; toutes les jeunes femmes de ma génération rêvaient d’écrire comme elle. Mes années d’études ont été jalonnées par les classiques français que j’ai rejetés, par la suite, pour leur substituer les écrivains américains marginaux. Mon identité d’écrivain est le résultat de ce métissage.
***°°°***