Nei giorni 5 e 6 novembre dello scorso
anno - il covid era una realtà ancora lontana e insospettabile - si svolse
presso l’Università degli Studi del Molise un importante convegno
internazionale, Geographies of Being:
Patterns and Paths in Transnational Dialogues. Come ospite d’onore era presente
il famoso scrittore italocanadese Nino Ricci, che in quell’occasione parlò
delle sue origini molisane e delle radici della sua scrittura nel corso di
un’intervista con Gabriella Iacobucci.
PATRIE
IMMAGINARIE: INTERVISTA A NINO RICCI
Gabriella Iacobucci: Vuole illustrare come è nata l’idea del suo primo romanzo Lives of the Saints?
Nino Ricci: L’idea iniziale non era certamente quella di scrivere un romanzo sull’emigrazione né sulle mie radici italiane. Basti pensare che da ragazzo ritenevo che essere italiano non avesse alcunché di positivo. Essere un emigrato significava vedere solo gli aspetti negativi della propria etnicità.
Nel caso della mia famiglia, in particolare, ci si sentiva più poveri rispetto ad altri: ad esempio non si acquistavano vestiti nuovi ma si indossavano quelli dismessi dai fratelli più grandi; non si comprava il pane dal fornaio ma si mangiava il pane fatto in casa – che, inutile dirlo, non era “bello” come quello esposto nelle vetrine delle bakeries. Erano queste le immagini legate alla mia italianità che mi portavo dentro: di sicuro non avevo capito veramente cosa significasse essere italiano ma sapevo cosa significava essere immigrato. Tali aspetti nella mia mente mi rendevano diverso dagli altri mentre volevo essere come gli altri. Ho compreso cosa volesse dire essere italiano solo quando sono venuto in Italia per la prima volta all’età di dodici anni insieme alla mia famiglia. In quell’occasione abbiamo viaggiato per tutto il Paese per alcune settimane ed è stato allora che mi sono reso conto di cosa significava essere italiano. Ho trovato una terra bellissima ricca di storia, di luoghi incantevoli come Venezia, Roma, Pompei e, da ragazzo quale ero, sono rimasto davvero impressionato da tutto questo. Cominciavo a capire che essere italiano non aveva a che fare soltanto con il pane fatto in casa e con i vestiti poveri. L’Italia era un paese ricco di cultura. Poi c’erano anche i paesi dei miei genitori, Villacanale e Poggio Sannita, che all’inizio non mi piacevano molto. Nel 1971, anno in cui ho visitato per la prima volta l’Italia, mi sembrava di essere tornato almeno cinquant’anni indietro. C’erano delle case con dei piccoli bagni senza alcun comfort rispetto alla vita cui ero abituato in Canada. Man mano che trascorrevano le settimane, questi luoghi “mi si sono messi sotto la pelle”, sono penetrati nella mia immaginazione in un modo così profondo e si sono impresse tanto intensamente nella memoria che da allora immagini e idee legate a quella esperienza non mi hanno mai più lasciato. Ed è stato quello il momento in cui ho cominciato a recuperare le mie radici italiane.Francesca D'Alfonso, Gabriella Iacabucci, Nino Ricci |
Successivamente,
quando ho avuto la piena consapevolezza di voler diventare uno scrittore – e
questo era un desiderio che mi portavo dentro già da giovane – ero certo di non
voler trattare delle “cose italiane”. Era molto radicata in me l’idea che essere
emigrante significava essere in parte discriminato, emarginato. Anche in Canada
le culture etniche erano viste ai margini e, di conseguenza, gli scrittori
etnici spesso rimanevano in una sorta di ghetto, dal momento che, secondo le
tendenze dominanti, gli scrittori appartenenti a tale tipologia non sembrava avessero
molto da dire ai canadesi: “Quello è italocanadese, non ha nulla a che fare con
me”. Tutti questi stereotipi ti portavano a essere invisibile, e io non volevo
essere uno scrittore di quel tipo. Volevo essere Shakespeare, Dostoevskij…
volevo essere uno scrittore e basta. Purtroppo, però, allora io scrivevo dei
racconti e i miei personaggi non avevano un background, non avevano di fatto
delle radici. Avevano nomi come Alex, Mary, non v’era alcuna allusione al fatto
di essere italiani. A un certo punto, specialmente quando decisi di scrivere un
romanzo, mi resi conto che bisognava avere più materia, qualcosa di profondo su
cui basare la storia dei personaggi, e fu allora che cominciai a ripensare al
mio passato con in mente una storia sul legame tra un fratello e una sorella. Decisi
che dovevo trovare un modo per approfondire tali personaggi: ed è così che
arrivai a pensare all’Italia. Immaginai che la sorella dovesse essere nata da
un adulterio, fuori dal matrimonio. E mi chiedevo: “Come posso separare un marito
da sua moglie?”. L’emigrazione era il sistema che conoscevo meglio, perché
spesso accadeva che l’uomo emigrasse lasciando la moglie in Italia. Inoltre,
avevo letto il libro di Carlo Levi Cristo
si è fermato ad Eboli in cui lo scrittore parla della sua esperienza di
confinato nel Sud Italia durante il periodo fascista, e di alcuni paesi in cui
tutti gli uomini erano emigrati e in cui spesso le donne avevano degli amanti e
dei figli illegittimi. Tutto questo era molto frequente, ma per me si trattava
di un argomento che non conoscevo poiché i miei genitori non me ne avevano mai parlato.
Sapevo che anche ad Agnone, per esempio, un paese vicino a
Villa Canale, c’era un convento con la “ruota degli esposti” che, com’è noto,
permetteva di collocare un neonato indesiderato, un figlio nato ad esempio fuori
dal matrimonio, protetti dall’anonimato, spesso di notte, senza essere visti
dall’interno. La ruota girava e le suore, dall’altra parte, si sarebbero prese
cura del bambino in modo umano e, soprattutto, anonimo. Il fatto che esistesse questo
strumento, significa che queste cose succedevano abbastanza spesso. Personalmente,
non avevo alcuna intenzione di scrivere un romanzo ambientato in Molise. Non
pensavo di avere sufficienti conoscenze ed è per questa ragione che cercai di
approfondire il mio “senso” del Molise. Feci
delle ricerche, e quando cominciai a scrivere mi resi conto che tutte le
immagini che provenivano soprattutto da quel primo soggiorno italiano – al
quale seguirono altri viaggi – riemergevano in maniera del tutto spontanea, e
quel mondo che mi portavo dentro veniva fuori in un modo compiuto nel momento
stesso in cui cominciavo la storia. Mi sono ritrovato così con un romanzo che
non volevo scrivere, che non pensavo affatto di scrivere, ma che poi si è quasi
imposto, forse proprio perché avevo trovato la materia che mi parlava. Mi raccontava
di me, di quello che ero. Mi diceva delle mie radici in un modo così potente che
stimolava la mia scrittura.
G.I.: Lei si è ritrovato in Canada in una grande famiglia
molisana composta dai suoi genitori, i fratelli, gli zii, i cugini, inserita a
sua volta in una più ampia comunità di molisani immigrati.
N.R.: Sì, confermo. Parrebbe che da Villa Canale la metà delle
persone si sia trasferita in Canada, nel paese in cui vivevo. Dopo la guerra
c’erano mille persone ad Agnone delle quali la metà sono andate a Leamington in
Canada, che era divenuto una sorta di “specchio” del paese di mia madre. I
volti di Villa Canale erano tutti familiari: si trattava di fratelli, cugini di
gente che conoscevo in Canada. Le abitudini molisane erano le nostre stesse
abitudini, le abitudini dell’Italia. Forse in modo un po’ diverso ma festeggiavamo
ogni anno San Michele. Ho avuto poi modo di assistere alla festa del Santo Patrono
a Villa Canale ed era una cosa a me già nota, qualcosa di conosciuto. Ogni anno,
ad esempio, a Leamington, nella mia comunità si ammazzava il maiale, si facevano
le salsicce, la festa della salsiccia: era quasi come essere in Italia, essere in
Molise. Venire in questi paesi per me era come vedere l’altra parte dello
specchio della mia cultura, della mia vita. Riuscivo finalmente a vedere l’immagine
nella sua interezza anziché accontentarmi soltanto della metà. Questa
esperienza mi ha offerto l’opportunità di comprendere meglio la vita vissuta in
Italia perché l’avevo vista in un certo senso anche in Canada.
G.I.: In Lives of The
Saints abbondano le citazioni dialettali: anche quelle le ha apprese a casa
sua?
RICCI: Sì, parlavamo il dialetto.
G.I: Non lo parla più?
N.R.: Ora molto meno. Ho imparato l’italiano e ho
dimenticato un po’ il dialetto. Per me è difficile parlare oggi con mia madre
perché, a parte poche parole, non parla inglese ma si esprime ancora in
dialetto. La sua è una lingua parzialmente mescolata all’inglese però è sempre
basata sul dialetto molisano. Per quanto mi riguarda, invece, riesco a parlare più
facilmente l’italiano che il dialetto, sebbene a casa mia si parlasse solo
dialetto e fino all’età di cinque anni – fino a quando cioè ho iniziato ad
andare a scuola – era la nostra prima lingua. Questo riguarda sia me che i miei
fratelli.
G.I.: Nel secondo romanzo, In a Glass House, il piccolo Vittorio Innocente, il protagonista, si
trasferisce in Canada e va a vivere presso il padre che possiede una fattoria
con dei terreni e delle serre. Nel romanzo vi sono molte pagine che raccontano
i lavori nei campi e lei li descrive in maniera molto realistica. In qualche
modo lei ha avuto un’esperienza diretta di quanto racconta?
N.R.: Eh, sì. Ogni giorno. Andavamo nei campi. Come accadeva
in Italia, anche a Leamington i ragazzi lavoravano. In effetti, si facevano molti
figli proprio perché c’era bisogno di operai che lavorassero alla fattoria. E
noi ne facevamo parte. Si andava a lavorare dopo scuola, in estate, spesso anche
il sabato e la domenica. Quanto descritto deriva proprio da un’esperienza
diretta.
G.I.: Nel secondo romanzo il piccolo Vittorio si ritrova in
Canada in un paese completamente diverso. È smarrito in tutti i sensi. A un
certo punto il protagonista va a scuola, una scuola inglese, da suor Bertram:
“Se fossi stato più intelligente, più me stesso, in qualche modo, suor Bertram
forse sarebbe stata più gentile; ma in me ogni cosa proclamava la mia
ignoranza, le mani macchiate, i vestiti goffi, il corpo pesante e impacciato
che si notava in mezzo agli altri. Quando parlavo non riuscivo a muovere la
bocca intorno agli strani suoni che le parole avevano in inglese, sentivo la
lingua inciampare contro il palato come se fosse gonfia e intorpidita” (Ricci,
Nino. 2004. La casa di vetro, Roma:
Fazi, 312). Vorrei sapere se quella che descrive qui con immagini così efficaci
era un’esperienza comune per i ragazzi di origine italiana e se l’ha vissuta
anche lei.
N.R.: No. Io parlavo già inglese quando sono arrivato a
scuola perché avevo dei fratelli che parlavano inglese, per cui ero già a un
livello abbastanza buono: era più una cosa che ho visto accadere ad alcuni
parenti che arrivavano in Canada e, andando a scuola, si imbattevano in queste
difficoltà. Personalmente, ho provato la stessa cosa quando ho cercato di
imparare altre lingue straniere. Ci voleva un po’ di immaginazione per entrare
nella mente di qualcuno in quella situazione, ma non è stato difficile
rintracciare delle esperienze analoghe nella mia vita per meglio comprenderne
le difficoltà. Credo che la difficoltà del comunicare, la difficoltà nel
parlare un’altra lingua, sia la maggiore difficoltà che si possa incontrare, e
credo di averla provata proprio in Italia: la prima volta che sono venuto qui non
riuscivo a capire l’italiano, parlavo il dialetto e avevo dei cugini di Roma
che mi prendevano continuamente in giro mentre io non riuscivo a capire cosa
dicevano. Mi sforzavo di parlare una lingua che non mi veniva spontaneamente e,
per questo, mi sentivo emarginato. E mi sentivo inferiore rispetto a loro anche
perché parlavo il dialetto di un paese che, allo stesso modo, veniva
considerato una lingua inferiore rispetto al loro italiano.
G.I.: I suoi romanzi successivi alla trilogia - che inizia
con Lives of The Saints, continua con
In a Glass House e Where She Has Gone, e narra la storia
d’emigrazione di una famiglia molisana - sono storie di un mondo diverso da
quello di Valle del Sole. In The Origin
of The Species, Testament, Sleep… cosa resta della sua identità molisana?
N.R.: In tutti i libri ci sono sempre gli italiani. E in un certo senso ce li metto proprio perché sento di avere una voce autorevole sull’argomento. Mi sento in qualche modo “a casa”, posso parlare di certi temi con autorità e al resto ci pensa l’immaginazione. Uno dei miei romanzi, Testament, parla della vita di Cristo liberamente. Cristo è considerato come uomo piuttosto che come Dio e in questo romanzo è il figlio di un soldato romano che ha violentato Maria. Dunque, anche in Testament è presente l’elemento italiano derivato dal fatto che da bambino ero convinto che Cristo fosse italiano: doveva essere italiano! E questa storia rappresentava il modo di renderlo italiano poiché figlio naturale di un romano. In realtà esisteva una tradizione secondo la quale Cristo era il figlio di un soldato romano. Anche il protagonista del prossimo romanzo è un italiano alle prese con i problemi derivanti dalla sua italianità. Il fatto di avere origini sannite lo aiuterà a comprendere cosa vuol dire appartenere a un popolo indigeno che poi viene conquistato e sottomesso per assimilarsi alla cultura dominante. Quello che è successo ai Sanniti, infatti, sta succedendo ancora in nord America con i popoli indigeni. Ho visto che scrivendo torno spesso a quest’aspetto della mia identità, a quest’aspetto molisano, e trovo gli strumenti per capire altre cose. Per esempio qui in Molise è stato rinvenuto l’uomo di Isernia (Homo Aeserniensis) che risale a 700.000 anni fa. Si può tracciare una linea di continuità da quell’uomo al presente. Per esempio i tratturi che venivano percorsi dalle greggi esistono ancora, ed erano le stesse strade che attraversavano gli animali selvatici che successivamente gli uomini – i protouomini – seguivano per ammazzarli e per nutrirsi. In questo senso il Molise mi ha dato questo modello dell’essere umano che mi ha informato su quanto scrivo.
G.I.: L’illustre etnologo
del 900 Ernesto De Martino dice che scrittore provinciale non è chi parla del
suo villaggio, ma al contrario chi non ha “un villaggio vivente nella memoria,
a cui l’immaginazione e il cuore tornano sempre di nuovo…”. Se lei è d’accordo,
il suo qual è, Valle del Sole o Leamington? Il Molise o il Canada? O entrambi?
N.R.: Sono
oltremodo d'accordo con De Martino. Nella mia scrittura l'ambientazione è
sempre stata molto importante e ritengo che solo avendo un senso profondo dei
luoghi di cui si scrive si possa veramente comprendere la complessità delle
vite che si svolgono al loro interno. Le società umane sono gli ecosistemi più
intricati, creati da generazioni e profondamente caratterizzati dai paesaggi in
cui si formano. Detto questo, penso che la dualità della mia stessa educazione
sia sempre stata una fonte di crisi per me in quanto scrittore proprio perché
non c’è mai stato un luogo in cui mi sono sentito veramente a casa, o dove potrei
dire con certezza di conoscere quel posto nel profondo. In qualche misura, è
proprio il senso di displacement ad
essere al centro di gran parte della mia scrittura e, di certo, è la sostanza
di molta letteratura: quella ricerca continua di una casa in cui far ritorno,
in cui ci si sente veramente conosciuti e compresi. Potrebbe essere questa la
ragione per la quale lavoro così duramente allo scopo di capire i luoghi di cui
scrivo, sia che si tratti del Molise, di Leamington, di Montreal o della
Palestina del I secolo. Nel tentativo di comprendere questi posti, spesso la
mia pietra di paragone non è tanto una questione di patria o addirittura di
villaggio natale – diciamo Leamington contro Valle del Sole – ma mondi molto
più piccoli che hanno segnato momenti rilevanti della mia vita. Il fienile della
fattoria in cui sono cresciuto e il torrente dove andavo a caccia di tartarughe
e rane; la cucina di mio nonno a Villa Canale o la stalla in cui all'età di
dodici anni avevo bevuto qualche bicchiere di vino insieme a un ragazzo che poi
sarebbe diventato l'ispirazione per il mio personaggio Fabrizio. Dopotutto, la
vera patria appartiene sempre all’immaginazione: il modo in cui mettiamo
insieme i frammenti delle esperienze che la fortuna ci ha dato di vivere, e che
rende credibili le nostre storie.
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I really enjoyed reading this wonderful in-depth interview. Gabriella Iacobucci asked the most relevant questions and the author Nino Ricci put into words the way which most children of Italian immigrants feel, especially writers who are often very sensitive to their duality--which I believe can actually be a richness for writers. As I am sure has been for Ricci. I will continue to read his books with pleasure, my favourite, The Lives of The Saints, especially in the Italian Translation, which strangely for me seemed to gain even more depth.
RispondiEliminaLa stimolante nota di Delia De Santis, è un invito a riprendere in mano la trilogia di Nino Ricci. Ci si accorge così che il primo racconto, La Vita dei Santi, è ricco di allusioni, ricordi, sospetti del protagonista/narratore, che nel testo originale potrebbero non apparire subito evidenti; De Santis, che lo predilige, afferma che nella versione italiana lo scavo della traduttrice fa emergere cose che nel testo originale non erano apparse altrettanto chiaramente. Merito di Gabriella senza dubbio. Però credo si debba aggiungere che se questa affermazione l'avesse fatta un altro (io, per esempio) si potrebbe osservare che, non conoscendo bene la lingua, certe sfumature possono passare inosservate, ma altrettanto non si può certamente dire nel caso di De Santis, italiana di nascita, ma scrittrice canadese nota e affermata. Allora il merito è sempre di Gabriella? Certamente, ma, aggiungerei, anche del clima di intesa con l'Autore, come del resto risulta evidente dalla schietta intervista in cui Ricci, dopo avere accennato al suo incerto esordio e al lungo viaggio nella memoria sua e di altri, ci confessa che ... Madame Bovary c'est moi.
RispondiEliminaTHE ANCIENT MARINER
Come altre volte è già capitato, devo a Gabriella la conoscenza di autori che danno lustro al nostro territorio. Perciò....grazie Gabriella, attendo la prossima puntata!!
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