martedì 6 marzo 2018

Giuseppe Tabasso: "Le ali del ritorno" di Rita Frattolillo una saga familiare che profuma di provincia



 di Giuseppe Tabasso



L'impulso a scrivere nasce come sfogo, curiosità, fame e piacere di vita, poi può diventare bisogno, passione e ossessione.  Ci s'infila in un tunnel simile a quello della droga: all'inizio vi si entra per star bene, poi ci si rimane per non star male. Mi è venuto di pensarlo leggendo il romanzo di Rita Frattolillo, Le ali del ritorno, che, come racconta l'autrice, ha avuto per molti anni una gestione complicata, con pagine distrutte, accantonate, riprese e rielaborate più volte "come un’ossessione che non si riesce a vincere". Spesso infatti il lavoro dello scrittore (e lo dico da semplice scrivente) è proprio questo: la riscrittura come parte integrante del processo creativo. Lo diceva Flaubert: "Scrivere significa riscrivere”.



E queste pagine della Frattolillo sono scritte e riscritte con un linguaggio chiaro, scorrevole, tanto da sorprendermi quando mi sono imbattuto nel termine "sincretico", il più ostico del romanzo. Un romanzo, va subito detto, che rientra in quel filone illustre e popolare che ci hanno fatto amare autori come Natalia Ginzburg, Isabelle Allende, Gabriel Garcia Marquez, Emily Bronte: il genere Saga familiare.

 Diario e racconto di un diario, Le ali del ritorno, non ha struttura lineare, ascendente o discendente, ma circolare e corale costruita sullo sfondo di interni ed esterni familiari. Un mosaico di rimembranze, affetti, conflitti, commozioni e ricordi in un gioco di specchi, di rimandi generazionali e di appartenenze condivise tra madri, sorelle, figlie, cugini, nonni, padri, zii, mariti e soprattutto nipoti. Una saga familiare che profuma di provincia sprovincializzata dove circola voglia di mondo, orgoglio delle radici, cultura come religione e, appunto, scrittura come "recidiva".

Termine questo che uso non a caso poiché riflette, come gioco di specchi, l'altra "recidiva", il male che segna la vita di Livia, la protagonista, e dà al romanzo un'impennata drammatica. Comincia così, con la "sparviera" in agguato, l'eterno duello con la vita affrontato con consapevolezza e raccontato da Livia, cioè da Rita stessa, con esemplare lucidità sdoppiando se stessa "per sembrare serena ed evitare il tracollo". Racconta una delle nipoti: "Leggere e scrivere aiutano la nonna a vivere, a dialogare con se stessa e, per guardare oltre, cercare lo zen distaccandosi dal quotidiano e volando alto estraniandosi dalle sofferenze." Cioè una metodologia dello spirito che non è un banale lieto fine.



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