di Rita
Frattolillo
Nel suo
ultimo romanzo “Nevica poco e male” (Gilgamesh edizioni, Asola, 2017) Antonella
Presutti mette in scena - o meglio, a
nudo - la provincia, un luogo dove, in
nome delle apparenze da salvare ad ogni costo, il divario tra quello che
succede nel chiuso delle mura domestiche e
il perbenismo di facciata è enorme. Ma, come suggerisce l’immagine di
copertina, è guardando dentro alla sagoma dell’uomo in bombetta di Magritte che
si scopre lo iato tra la realtà effettiva e quella apparente.
A guardare “dentro
- con estrema lucidità - si dedica l’investigatore protagonista del romanzo.
Motivo? Si trova in uno stato particolare dopo un trapianto cardiaco. Convinto
di vivere in un presente senza fine né
inizio per via di certi vuoti di memoria, egli decide di indagare sulla vita di un
antico palazzo rosso ritratto in una sua foto.
Davanti a
quel palazzo del centro storico, a lui ben noto, l’investigatore comincia a ricordare,
sia pure confusamente. Inizia così - per
il gusto di sapere e per riprendere contatto con la realtà - un’indagine che
fin da subito si denota come un viaggio insolito, in bilico tra passato e
presente.
In effetti
basta poco perché dal passato si affaccino persone e oggetti,
basta poco perché “il vuoto si popoli di presenze”. E allora, in un
gioco surreale tra quanto sta accadendo e quanto già successo, le storie delle
persone che hanno abitato in quel palazzo prendono vita una dopo l’altra sotto lo sguardo disilluso e impietoso del
nostro investigatore che osserva fruga analizza radiografa sviscera. E che non
perde occasione per smentire con i fatti
i cliché tanto cari alla provincia
apparentemente addormentata ogni qualvolta
la situazione precipita fino al punto di rottura, che frantuma la crosta distruggendo l’apparenza
costruita con tanta cura.
Ma che storie
sono, che persone? Sono storie tratte da episodi di cronaca nera o frutto
dell’osservazione diretta. In ogni caso sono
scampoli di esistenze sopraffatte
dal gap tra una quotidianità di
facciata, apparentemente normale, e quel che ribolle dentro, come la
consapevolezza e il rimpianto di Giuseppe
per il fallimento della propria vita rinfacciato senza pietà dalla madre
aguzzina, cosa che innesca l’esplosione della furia omicida.
Oltre la
facciata c’è il sordido interesse che porta all’assassinio, c’è il vuoto
metafisico di Schiacciasorrisi, oppure il vacuo gusto del potere dell’ex
fruttivendolo. Il male, insomma, si annida negli anfratti di una realtà
ordinaria, e non c’è scampo al grumo nero che nega ogni spiraglio alla
sopravvivenza.
E’ un male
eterno, che non conosce fine né limiti, che attraversa interrompendoli destini qualunque,
in balìa di un mondo orfano dell’elemosina della compassione, dove la tragedia
incombe per lo più improvvisa strappando vita speranza e anima.
Qui non ci
sono vincitori, ma vinti, come tanti di
noi, dai colpi d’ascia della sorte,
fuscelli spezzati senza pietà. E
sono isole senza ponti, persone tremendamente incapaci di empatia,
schiacciate da drammi vissuti nella solitudine più nera, o vittime di una sorta di straniamento, come
il figliastro di Ida, il quale senza il minimo soprassalto di coscienza, dopo
aver spaccato la testa all’assassino, si
addormenta placidamente sulla poltrona per poi, al risveglio, prepararsi il caffè. Come se nulla fosse
accaduto.
In questo
mondo anaffettivo le donne sono forti pur se sono deboli, assorbono ogni dolore
fino ad assolvere i loro “carnefici”, come
la donna picchiata dal marito.
Il barlume
della svolta verso un orizzonte percorribile arriva inaspettatamente con Luca,
un insignificante ferroviere pensionato che sogna di reincarnarsi nei suoi venti
uccellini.
Accogliendo a
casa l’investigatore, Luca, che è l’ultimo
personaggio di questo campionario di varia (dis)umanità - emblema di una
dimensione universale in cui tutti noi ci possiamo rispecchiare - lo soggioga
con il suo fare bonario e discorsivo, si dimostra fine osservatore raccontando
certe storie, e, dando voce ai suoi
pensieri, lo trascina nel suo mondo fatto di serenità e quieto vivere. Luca
riconcilia quindi l’investigatore con il suo passato, con la vita, facendogli
comprendere che in definitiva sono le
piccole cose a poter dare un senso all’esistere.
Sostando davanti alla vecchia casa della sua
infanzia, l’investigatore si rende conto che il suo viaggio è stato una sorta
di attraversamento…geologico, un intreccio tra terra e carne, una compenetrazione
negli abbagli di una natura umanizzata e nei meandri di un’umanità sofferente
che ha smarrito il senso dell’appartenenza. Ora che ha recuperato ampi sprazzi
di memoria, l’indagatore sa che il cuore nuovo gli ha dato consapevolezza.
La scrittura di Antonella Presutti, potente,
prosciugata, sostiene magnificamente la raffigurazione del lato oscuro
dell’animo umano, e scandaglia senza riguardi la desolata e dolente condizione
umana che non ha più stampelle a cui
appoggiarsi.
Una scrittura ad alta tensione che supera il
confine tra quello che sembra e quello che è, dove i dialoghi sono risucchiati
nel discorso indiretto libero per amplificare la risonanza emotiva. Le
descrizioni, ridotte all’osso, sono estremamente pregnanti, e quando riguardano
schegge di natura raggiungono il
diapason grazie ad accostamenti inusitati.
Che siano zolle di terra, uno sterpo, lo stupore dei colori del tramonto, la
natura, caricata del duplice significato realistico/simbolico, è percepita dall’Autrice
come linfa vitale, consolatrice, riparatrice e rigenerante per le sciagure
umane: “La strada verso il dolore è luminosa tra campagne e montagne, disegnata
in mezzo al bosco con l’illusione della felicità”, racconta Francesco pensando
alla strada per l’ospedale.
I paesaggi sono anch’essi essenziali,
straordinariamente evocativi, trasfigurati spesso da analogie sorprendenti, e
le immagini sono un lampo suggestivo.
Una scrittura osmotica, grazie al passaggio
simultaneo dal dentro al fuori, tra quello che succede “nel” personaggio e intorno a lui:. «Mi ero alzato felice, che si era
messo a fare freddo, e quando fa freddo non mi disunisco, se arriva il caldo,
invece, evaporo ed ogni pezzetto del mio corpo se ne va in giro da qualche
parte. Ero felice», dice Francesco.
Il rapporto
con il clima, il tempo, la stagione arriva a essere viscerale, giacché la neve, la pioggia, non sono un grazioso ornamento, una semplice
cornice a quanto avviene, ma fanno intimamente parte del tessuto narrativo,
sono commisti con i fatti, le persone. Ed è tanto vero, questo, che
persino il finale del romanzo è affidato a una notazione sulla pioggia:
«Scende la prima pioggia autunnale, pungente e
temeraria, sulle mie mani». Parole che
varcano l’intarsio delle parole per risuonare a lungo nel lettore.
Rita
Frattolillo©2018tutti i diritti riservati
ANTONELLA
PRESUTTI, Nevica poco e male, Gilgamesh Edizioni, Asola 2017. Prezzo 14euro
CHI E’?
Figura di spicco
nel panorama culturale molisano, l'Autrice è docente di Italiano e Latino nei Licei. Ha
scritto alcuni saggi con Simonetta Tassinari: Un processo carbonaro. Il Molise prima del Molise, La miseria della democrazia e un
romanzo, Lascia che spunti il mattino
americano, alla sua seconda edizione. Con Licia Vigliardi il pamphlet Il fu Mattia Bazar. Ha pubblicato il
romanzo Sabat Mater, di cui si sta
curando una riduzione teatrale. Diversi contributi e saggi sono inseriti in
riviste e pubblicazione specialistiche. La Presutti attualmente è Presidente della
Fondazione Molise Cultura.
Cara Rita,
RispondiEliminala tua recensione è semplicemente magnifica. Nessuno avrebbe potuto andare così a fondo nell’analisi di un libro – stupendo – che va letto, pensato, e vissuto attraverso i suoi variegati personaggi. Dirti brava è poco! Complimenti anche alla scrittrice che in questo libro vola davvero molto alto. Barbara