venerdì 2 febbraio 2018

Antonella Presutti “Nevica poco e male”, recensione



di Rita Frattolillo


Nel suo ultimo romanzo “Nevica poco e male” (Gilgamesh edizioni, Asola, 2017) Antonella Presutti  mette in scena - o meglio, a nudo - la  provincia, un luogo dove, in nome delle apparenze da salvare ad ogni costo, il divario tra quello che succede nel chiuso delle mura domestiche e  il perbenismo di facciata è enorme. Ma, come suggerisce l’immagine di copertina, è guardando dentro alla sagoma dell’uomo in bombetta di Magritte che si scopre lo iato tra la realtà effettiva e quella apparente.
A guardare “dentro - con  estrema lucidità - si dedica  l’investigatore protagonista del romanzo. Motivo? Si trova in uno stato particolare dopo un trapianto cardiaco. Convinto di vivere in un presente senza fine né  inizio per via di certi vuoti di memoria,  egli decide di indagare sulla vita di un antico palazzo rosso ritratto in una sua foto.


Davanti a quel palazzo del centro storico, a lui ben noto, l’investigatore comincia a ricordare, sia pure confusamente. Inizia così  - per il gusto di sapere e per riprendere contatto con la realtà - un’indagine che fin da subito si denota come un viaggio insolito, in bilico tra passato e presente.
In effetti basta poco perché dal passato si affaccino persone  e oggetti,  basta poco perché “il vuoto si popoli di presenze”. E allora, in un gioco surreale tra quanto sta accadendo e quanto già successo, le storie delle persone che hanno abitato in quel palazzo prendono vita una dopo l’altra  sotto lo sguardo disilluso e impietoso del nostro investigatore che osserva fruga analizza radiografa sviscera. E che non perde  occasione per smentire con i fatti i cliché tanto cari alla provincia apparentemente  addormentata ogni qualvolta la situazione precipita fino al punto di rottura, che  frantuma la crosta distruggendo l’apparenza costruita con tanta cura.

Ma che storie sono, che persone? Sono storie tratte da episodi di cronaca nera o frutto dell’osservazione diretta. In ogni caso sono  scampoli di esistenze  sopraffatte dal gap tra una quotidianità  di facciata, apparentemente normale, e quel che ribolle dentro, come la consapevolezza e il rimpianto di Giuseppe  per il fallimento della propria vita rinfacciato senza pietà dalla madre aguzzina, cosa che innesca l’esplosione della furia omicida.

Oltre la facciata c’è il sordido interesse che porta all’assassinio, c’è il vuoto metafisico di Schiacciasorrisi, oppure il vacuo gusto del potere dell’ex fruttivendolo. Il male, insomma, si annida negli anfratti di una realtà ordinaria, e non c’è scampo al grumo nero che nega ogni spiraglio alla sopravvivenza.
E’ un male eterno, che non conosce fine né limiti, che attraversa interrompendoli destini  qualunque, in balìa di un mondo orfano dell’elemosina della compassione, dove la tragedia incombe per lo più improvvisa strappando vita speranza e anima.

Qui non ci sono vincitori,  ma vinti, come tanti di noi,  dai colpi d’ascia della sorte, fuscelli spezzati  senza pietà. E sono  isole senza ponti, persone  tremendamente incapaci di empatia, schiacciate da drammi vissuti nella solitudine più nera,  o vittime di una sorta di straniamento, come il figliastro di Ida, il quale senza il minimo soprassalto di coscienza, dopo aver spaccato la testa all’assassino, si  addormenta placidamente sulla poltrona per poi, al risveglio,  prepararsi il caffè. Come se nulla fosse accaduto.
In questo mondo anaffettivo le donne sono forti pur se sono deboli, assorbono ogni dolore fino ad assolvere i loro “carnefici”, come  la donna picchiata dal marito.

Il barlume della svolta verso un orizzonte percorribile arriva inaspettatamente con Luca, un insignificante ferroviere pensionato che sogna di reincarnarsi nei suoi venti uccellini.
Accogliendo a casa  l’investigatore, Luca, che è l’ultimo personaggio di questo campionario di varia (dis)umanità - emblema di una dimensione universale in cui tutti noi ci possiamo rispecchiare - lo soggioga con il suo fare bonario e discorsivo, si dimostra fine osservatore raccontando certe  storie, e, dando voce ai suoi pensieri, lo trascina nel suo mondo fatto di serenità e quieto vivere. Luca riconcilia quindi l’investigatore con il suo passato, con la vita, facendogli comprendere che in definitiva  sono le piccole cose a poter dare un senso all’esistere.

 Sostando davanti alla vecchia casa della sua infanzia, l’investigatore si rende conto che il suo viaggio è stato una sorta di attraversamento…geologico, un  intreccio tra terra e carne, una compenetrazione negli abbagli di una natura umanizzata e nei meandri di un’umanità sofferente che ha smarrito il senso dell’appartenenza. Ora che ha recuperato ampi sprazzi di memoria, l’indagatore sa che il cuore nuovo gli ha dato consapevolezza.
 La scrittura di Antonella Presutti, potente, prosciugata, sostiene magnificamente la raffigurazione del lato oscuro dell’animo umano, e scandaglia senza riguardi la desolata e dolente condizione umana che non ha  più stampelle a cui appoggiarsi.

 Una scrittura ad alta tensione che supera il confine tra quello che sembra e quello che è, dove i dialoghi sono risucchiati nel discorso indiretto libero per amplificare la risonanza emotiva. Le descrizioni, ridotte all’osso, sono estremamente pregnanti, e quando riguardano schegge di natura  raggiungono il diapason grazie ad accostamenti inusitati. Che siano zolle di terra, uno sterpo, lo stupore dei colori del tramonto, la natura, caricata del duplice significato realistico/simbolico, è percepita dall’Autrice come linfa vitale, consolatrice, riparatrice e rigenerante per le sciagure umane: “La strada verso il dolore è luminosa tra campagne e montagne, disegnata in mezzo al bosco con l’illusione della felicità”, racconta Francesco pensando alla strada per l’ospedale.

 I paesaggi sono anch’essi essenziali, straordinariamente evocativi, trasfigurati spesso da analogie sorprendenti, e le immagini sono un lampo suggestivo.
 Una scrittura osmotica, grazie al passaggio simultaneo dal dentro al fuori, tra quello che succede nel” personaggio e intorno a lui:. «Mi ero alzato felice, che si era messo a fare freddo, e quando fa freddo non mi disunisco, se arriva il caldo, invece, evaporo ed ogni pezzetto del mio corpo se ne va in giro da qualche parte. Ero felice», dice Francesco. 

Il rapporto con il clima, il tempo, la stagione arriva a essere viscerale, giacché  la neve, la pioggia,  non sono un grazioso ornamento, una semplice cornice a quanto avviene, ma fanno intimamente parte del tessuto narrativo, sono  commisti con i fatti,  le persone. Ed è tanto vero, questo, che persino il finale del romanzo è affidato a una notazione sulla pioggia:
 «Scende la prima pioggia autunnale, pungente e temeraria, sulle mie mani».  Parole che varcano l’intarsio delle parole per risuonare a lungo nel lettore.
Rita Frattolillo©2018tutti i diritti riservati

ANTONELLA PRESUTTI, Nevica poco e male, Gilgamesh Edizioni, Asola 2017. Prezzo 14euro
CHI E’?
Figura di spicco nel panorama culturale molisano, l'Autrice è docente di Italiano e Latino nei Licei. Ha scritto alcuni saggi con Simonetta Tassinari: Un processo carbonaro. Il Molise prima del Molise, La miseria della democrazia e un romanzo, Lascia che spunti il mattino americano, alla sua seconda edizione. Con Licia Vigliardi il pamphlet Il fu Mattia Bazar. Ha pubblicato il romanzo Sabat Mater, di cui si sta curando una riduzione teatrale. Diversi contributi e saggi sono inseriti in riviste e pubblicazione specialistiche. La Presutti attualmente è Presidente della Fondazione Molise Cultura.


1 commento:

  1. Cara Rita,
    la tua recensione è semplicemente magnifica. Nessuno avrebbe potuto andare così a fondo nell’analisi di un libro – stupendo – che va letto, pensato, e vissuto attraverso i suoi variegati personaggi. Dirti brava è poco! Complimenti anche alla scrittrice che in questo libro vola davvero molto alto. Barbara

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