di Rita
Frattolillo
Le mie letture estive si sono
incentrate sulla produzione narrativa di Elvira Tirone, la cara amica scomparsa
tre anni fa, di cui ho sempre ammirato
l’assiduità dell’impegno e la figura di intellettuale originale nel panorama
culturale molisano.
Dei suoi tre romanzi, pubblicati tra
il 1968 (Oltre la valle) e il 1996 (Il sentiero di Aracne) con l’intermezzo
del 1991 (A colloquio con Belzebù), non credo che siano in molti a sapere che
il primo e l’ultimo sono stati generati nello stesso periodo, pur se usciti a
quasi trent’anni di distanza. Un dato che non sarebbe tanto rilevante se Oltre
la valle e Il sentiero di Aracne
sviluppassero un tema simile.
Dopo Oltre la valle la penna di Elvira, grazie al suo “cervello a
scacchi” - la definizione è sua- non si è fermata più.
Infatti mentre assaporava il meritato successo del primo romanzo, la sua mente già mulinava vorticosamente problematiche di importanza epocale che
andavano assolutamente affrontate e sviluppate: la condizione della donna nella
società e le problematiche del mondo scolastico.
In effetti, dei due romanzi successivi a
quello di esordio, Il sentiero di Aracne è quello
pubblicato per ultimo, vede la luce nel ’96, mentre, come ha scritto lei
stessa, lo aveva pensato “di fronte all’insolito mare di Pesaro nel luglio del 1967”, nello stesso momento in cui usciva Oltre la valle.
Quindi i due romanzi sono stati
generati nello stesso periodo, pur se usciti a quasi trent’anni di distanza.
Un dato che non sarebbe tanto
rilevante se Oltre la valle e Il sentiero
di Aracne sviluppassero una tematica
simile.
Tutt’altro, perché mentre Elvira raccontava il proprio vissuto e quello della
propria famiglia,
contemporaneamente si andava
concentrando sulla condizione della donna, che nell’età patriarcale era
considerata priva di attitudini creative: è questo il tema trattato ne Il sentiero di Aracne.
Passare dall’accattivante tono (auto) ironico
e divertito che domina gran parte del racconto “privato”di Oltre la valle alla intensa speculazione filosofica fitta di
richiami allegorici e mitologici de Il
sentiero di Aracne, vi posso
assicurare che è quanto meno sorprendente.
E’ sicuramente insolito per il lettore immergersi pressoché
totalmente nel mito, penetrare in una trattazione etico-filosofica
completamente diversa dagli altri due romanzi.
Elvira si è nutrita di classicità, si è
dissetata alla fonte dei miti greci, qui rimandando in particolare a Ovidio e
all’Asino d’oro di Apuleio, in cui
Lucio si libera della forma ferina per immettersi nel flusso di un’umanità che
tende al Divino. E chi legge, assieme ad Elvira e Aracne, compie un viaggio per
certi versi visionario e surreale tra mito,
storia e filosofia.
E siccome alla Nostra non fa difetto l’estro
poetico, questo romanzo, oltre a presentare come supporto un corposo apparato
di note esplicative, è pure impreziosito con sue poesie o filastrocche del
tempo antico.
Chi è Aracne? Secondo il mito, era una giovane
tessitrice lidia, figlia del tintore Idmone di Colofone, che fu punita per la
sua superbia dalla gelosa dea Minerva. Trasformata nel minuscolo ragno, tesse da allora una tela incolore,
sempre uguale.
Nella rivisitazione di Elvira Aracne
è una donna della buona borghesia che, stanca della vacuità dei suoi pomeriggi
con le amiche sorseggiando tè, tira fuori da una soffitta un vecchio telaio
nell’intento di tessere quando ha tempo e voglia.
Annoiata dunque da questo ménage, la protagonista
tenta di evadere dal suo mondo, estraniandosi anche mentalmente dalla
casa. Sul sentiero intrapreso per ritrovare se stessa
incontra animali diversi, prima tra tutti una giovenca - simbolo della
riflessione - che, parlando con lei, l’accompagna alla stazione e la fa salire sul treno che la porterà oltre
confine.
Scesa alla prima stazione dopo il confine, si
rende conto che la giovenca è illusione, e quindi Aracne torna nella sua città,
a casa. Ma qui, se capisce di trovarsi in una dimensione fittizia, in quanto
costruita dalla sua mente, d’altra parte si accorge di aver acquisito una
maggiore facoltà di argomentare, facoltà che contribuisce a renderla più
astratta; a ogni tappa cerca di tornare a casa, ma ogni volta se ne allontana,
con conseguenti sensi di colpa. Riprende il telaio, ma ricompare la giovenca -
trasformata in cerbiatto, con gran palco di corna, rappresentazione
dell’ampliarsi del pensiero - e la
conversazione prende un tono sempre più filosofico.
Perché in realtà ciò che sta a cuore
ad Elvira non è soltanto la condizione femminile, ma anche mettere a fuoco i temi eterni, quelli
indagati dai maggiori pensatori dell’umanità, che lei passa in rassegna. E’ questo il viaggio di Aracne, mentre supera valli e
monti, sorvola mari, laghi e foreste, e si trova ad affrontare i nodi etici,
esistenziali, filosofici, metafisici ed estetici cari all’Autrice : il rapporto
tempo-spazio, l’essere e il nulla sartriani,
l’Eterno, il cogito ergo sum cartesiano,
la scienza, la natura, l’aldilà, Dio e il divino. Ma anche la poesia e
il suo valore, il dono dell’immortalità a cui aspira da sempre il poeta.
Di tappa in tappa, di fantasia in
fantasia Aracne arriva fino alle soglie dell’oltretomba per chiedere la verità.
Poi si trova sulla riva di un lago e
un usignolo (ex cervo) - simbolo del canto e della poesia, che è capace di
sollevare l’uomo al di sopra della contingenza - la solleva in aria fino
all’altra riva; entrambi vedono un castello su un’altura (simbolo della critica
letteraria), e mentre tutto sprofonda l’uccello
soccorre Aracne sollevandola dalle zolle.
Il poeta, cioè- vuole intendere Elvira -
aspira all’immortalità, ma la poesia da sola non può riconciliare l’Umano e il
Divino, in quanto non riesce a superare
la sfera del mito.
Aracne, delusa dalla poesia, sprofonda nella
preistoria alla ricerca della felicità, ma è disturbata da una volpe, simbolo
del gioco politico. Seguono altri incontri, altri discorsi e la visione dei
drammi della Storia dell’umanità, delle guerre e devastazioni, finché si arriva alla tappa 23.
Questa segna
una svolta, perché una forza esterna alla sua volontà porta Aracne oltre lo
scoglio, simbolo della morte. Nel passaggio dal piccolo al grande mare un prete
l’accompagna, l’aiuta a superare lo scoglio e l’ invita a mantenere la fede. Ad
aiutarla nel passaggio sarà Roald Amundsen(1872-1928), l’esploratore norvegese
che raggiunse per primo il Polo Sud (1911) , morto portando soccorsi a Nobile e
al dirigibile Italia.
Ribadisce che “ il tempo non passa,
ma lo spazio passa, il tempo è come il flusso del mare che pare che avanzi ed è
sempre lì”.
Si infittiscono quindi le
digressioni allegoriche e metafisiche del mito nell’intento di suffragare la
tesi che l’uomo, senza il sostegno della fede, non può salvarsi, né dare senso
alla sua vita, pressato com’è dalle contingenze, da cui può sottrarsi solo
approdando al vero essere che è il sommo bene. Nella trama dall’alta valenza
etico-religiosa si coglie il drammatico
dissidio tra l’anelito alla conoscenza e all’assunzione di un ruolo sociale da
parte della donna, il richiamo ai doveri
verso la famiglia.
Nel penultimo capitolo si assiste
all’assalto:Hobbes, Leibniz, Cartesio, Kant, Hegel, accusano Aracne di aver
rubato le loro idee, solo Kierkegaard la sprona a non avere paura.
L’incontro con Kierkegaard, il padre
dell’esistenzialismo, produce l’apologia del Silenzio “come porsi nell’attimo,
che palpita nell’individuo e fuori di lui per cogliere l’infinito sussurro del
mondo”.
E’ necessario che il Divino si
accompagni con gli uomini per illuminare il sentiero che conduce dove il Tempo
non passa e lo spazio si assoggetta alla legge dell’Essere.
Ora ad Aracne non rimane che la
speranza, rappresentata dalle Eliadi, le sorelle di Fetonte, il quale adombra
il peccato originale, per aver voluto imitare Dio creatore. Ma l’uomo, dice
Elvira, senza la grazia di Dio produce solo mostri e disastri. Dopo altre
sequenze, Minerva (la civetta),
considerata l’implacabile nemica dell’evoluzione della donna, strappa ad Aracne l’ordito e la riporta tra
le mura domestiche.
Ma il ritorno segna anche il ritorno
alla fede, accettata durante l’arduo cammino della mente alla ricerca della
Verità, ed è un ritorno che fa scoprire l’unica via possibile: quella - appunto
- della Speranza.
Una volta a casa, la donna si sente
come “una chiocciola respinta nel suo guscio” e l’istinto la porta in un angolo
a tessere.
“Nel
fondo rigido e freddo di uno specchio Circe rideva, mentre le Eliadi
mormoravano il loro lamento tra il verde ondeggiante delle foglie dei pioppi:
-Signore -dicevano- da chi andremo?
Tu solo hai parole di vita
eterna-“
In definitiva Elvira ravvisa nel
mito di Aracne l’emblema della condizione femminile relegata a ripetere gli
stessi gesti, ma individua un superamento di esso, perché dal senso del mito,
grazie all’opera educativa di Dio, è possibile il passaggio alla speranza nella
fede, a Cristo, che è il braccio teso da Dio verso l’uomo per condurlo dove il
Tempo non passa e lo spazio si assoggetta alla legge dell’Essere.
Rita Fattolillo©2016 Tutti i diritti
riservati
Nessun commento:
Posta un commento