lunedì 29 agosto 2016

“TU NON SEI MIO PADRE”, di Michele Tanno, presentato a San Biase il 13 agosto scorso

Da sx: N. Lombardi, M. Tanno, B. D'Andrea, G. Iacobucci, G. Bagnoli
di Gabriella Iacobucci  

  
       “Mi chiamo Biase D’Andrea e sono nato a San Biase in provincia di Campobasso il primo  gennaio 1938. Come potete subito notare porto due segni del destino: il nome del mio paese –che è anche quello del Santo  Patrono- e la data in cui sono venuto al mondo, all’alba del primo giorno dell’anno. Questi auspici avrebbero dovuto significare per me una speciale protezione celeste e un augurale messaggio terreno di benvenuto all’anno nuovo e a una vita migliore. La mia, purtroppo, non è stata così: è stata un inferno con qualche sprazzo di paradiso sul tardi.  […] Desidero svelarla senza tacere particolari , anche se imbarazzanti o strettamente personali…   “
  

 Con questa dichiarazione  comincia il libro TU NON SEI MIO PADRE nel quale  Michele Tanno – sulla base di appunti autobiografici consegnatigli da lui stesso-  ha ricostruito la storia del suo compaesano Biase D’Andrea. Una storia altamente drammatica, in cui non manca nessuno degli  ingredienti di un grande romanzo: la lotta per la vita, il conflitto, la tragedia, la resurrezione, e soprattutto lo spessore dei protagonisti, qui innanzitutto la figura complessa del padre, un uomo duro e tormentato, la fragile e sfortunata madre, lo stesso Biase con la sua voglia di riscatto.



 Michele Tanno, con la modestia che gli è propria, si è sempre schermito dicendo “io non sono uno scrittore”…  Ma se da una parte poteva essere vero, cos’era allora che catturava l’attenzione nelle sue storie, che trascinava, che fossero quella dei grani del Molise o quella del povero  Michele Di Cola?  Anche stavolta me lo sono chiesta. Nell’uno e nell’altro caso - nel trattato di agricoltura e nel racconto -  le sue ricostruzioni seguono lo stesso procedimento: un’analisi attenta dei dettagli, sia che descriva la forma e le qualità delle spighe, sia che rappresenti luoghi, azioni, emozioni dei suoi personaggi. Perché natura e uomini, ovvero i campi di grano, le stagioni, il derelitto del paese, il giovane Biase, sua madre Cristina e il padre,  fanno tutti parte allo stesso modo di un unico mondo - il suo - che Michele Tanno ricorda, osserva, descrive meticolosamente per salvarlo dalla scomparsa, per fissarlo con le parole in  una forma  non deperibile.

Alla fine dell’800, quando si pensò  che il romanzo dovesse essere uno strumento di indagine sociale  e che ,  in quanto tale,   dovesse descrivere la realtà nella sua verità, il teorico del naturalismo francese  Emile  Zola’  parlava di applicare un metodo scientifico alla scrittura. E la regola fondamentale del Verismo, in Italia, fu quella di ritrarre direttamente dal vero. I fatti diventavano documenti umani e venivano ricostruiti mediante lo studio delle condizioni naturali, sociali  e morali che li avevano determinati. 

 Michele Tanno fa tutte queste cose istintivamente, rivolgendo la sua attenzione al mondo contadino della sua terra, quello che conosce da vicino. E i suoi racconti non sono aridi, come una simile premessa potrebbe far pensare, perché le sue descrizioni attente sono il segno amorevole di una profonda adesione sentimentale e morale al mondo  dei suoi personaggi, una profonda pietà umana per quelle creature le cui esistenze somigliano spesso a quelle dei “vinti” di verghiana memoria.

 Nel brano che segue il protagonista Biase racconta della madre Cristina la quale, da quando il marito è partito per il fronte, deve mandare avanti da sola la terra e la casa e occuparsi di lui, ancora in fasce.


“Già nei primi mesi della mia vita, quando si doveva lavorare nei campi, mia madre, dopo avermi avvolto strettamente le gambe, le braccia e il corpo con una rigida e ruvida fascia di canapone, ovvero ‘impupato’, secondo l’usanza e la voce dei tempi culace, e coperto con un velo tenuto sollevato da un semicerchio di legno, mi portava ogni mattina sul posto nella culla messa sul capo e mi riconduceva la sera. Ai piedi di questa poneva un’altra fascia di tela per il mio ricambio durante il giorno e qualche tozzo di pizza di granone con un po’ di companatico per il suo nutrimento.
Il pubblico

 Durante il lungo cammino, con una mano reggeva la culla e con l’altra teneva la punta del manico del bidente o altro attrezzo di lavoro poggiato dall’altra estremità sulla spalla.
Quelle volte che si recava senza strumenti agricoli, per recuperare tempo e lavoro lungo il percorso sferruzzava con tutte e due le mani calze o maglie di lana avanzando con la culla in testa, senza toccarla e in perfetto equilibrio, un occhio ai ferri di lavoro e l’altro davanti alle gambe per non inciampare…”


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