Gabriella Iacobucci, Pietro Corsi, Mariella Di Brigida |
(Casacalenda, 11 agosto 2015)
di GABRIELLA IACOBUCCI
PREMESSA
Sono
passati vent’anni anni da quando lessi La giobba di Pietro Corsi, e da allora ho
avuto tra le mani più o meno tutti i suoi libri, a volte ancora in forma di
manoscritto. In questi giorni ho
ripensato a quei libri, a tutte quelle
storie riportate dal mondo, e al grande valore di una produzione così ricca e
varia, valore che va al di là di quello puramente letterario. Consentitemi di fare una piccola digressione storica, per arrivare al 1992, anno
in cui feci il mio primo viaggio in Canada per una Settimana della Cultura
Molisana.
So
che ce ne sono state altre, ma quella Settimana fu particolarmente
significativa, perché per la prima volta nata dalla consapevolezza che era
giunto il momento di far uscire il Molise dall’isolamento ricollegandolo al più
grande Molise disperso dall’emigrazione in tutti i continenti, di creare una
sinergia con le migliaia di molisani impegnati nell’industria, nella politica,
nella cultura, nell’arte in tutto il mondo. Infatti al termine della Settimana,
dopo una serie di incontri e dibattiti con
rappresentanti delle istituzioni, delle associazioni, delle università,
della stampa, della letteratura, fu fondato il Coordinamento dei Molisani nel Mondo
con sede a Toronto. Tornando a quella settimana, essa fu una vera scoperta ,
non solo di un mondo, quello dei nostri
emigrati, che per me era rimasto fermo nel tempo e che invece era totalmente cambiato, ma soprattutto, quella di un’infinità di storie ̶ in forma di romanzi, racconti,
poesie, saggi, autobiografie ̶ che i figli dei vecchi emigrati e quelli
venuti dopo avevano scritto e di cui non sapevo. Storie che raccontavano quello che era successo dopo la traversata dell’oceano, storie di lavoro, di
disoccupazione, di successi, di solitudine, di nostalgia, di spaesamento. E fu
attraverso la lettura di queste storie che potei conoscere quel mondo, sapere
quello che nessuno aveva mai detto.
Fu in
quell’occasione che conobbi Nino Ricci, Giose Rimanelli e Pietro Corsi (che
con me fece parte del Coordinamento), con il quale in
particolare si stabilì un legame di collaborazione e amicizia che dura ancora
oggi.
Alla luce di queste considerazioni, è evidente
quale sia il valore che attribuisco ad
autori come Pietro Corsi. Raccontano l’altra metà della nostra storia, quella
che per noi si era interrotta nel momento in cui tanti erano partiti per attraversare
l’oceano e che, pur appartenendoci, non si trovava nei nostri libri. Nel caso
di Pietro, inoltre, la particolarità
delle vicende della sua vita, la varietà dei paesi e delle culture con le quali è venuto a
contatto, sono state per lui - ancora
oggi lo sono - una fonte inesauribile di
ispirazione.
Dopo il Canada, quindi, la mia attenzione era
concentrata sulle storie di emigranti e, anche nei romanzi di Corsi, mi attiravano quelli
i cui protagonisti erano gli emigranti, come il contadino Onofrio Annibalini de
La Giobba, o il missionario Padre Piperni de L’ambasciatore di don Bosco, oppure quelli ambientati a Casacalenda, che tra
partenze e ritorni sembrava un paese di frontiera. Avevo dedicato
meno attenzione ai romanzi messicani,
come Ritorno a Palenche, Sweet Banana, Lo sposo messicano, scritti dopo il suo
trasferimento in Messico e il suo matrimonio. Abituata a sentire Pietro dire
che Casacalenda era la sua vera casa, non avevo pensato che il Messico era l’altra sua patria. Solo dopo ho
riflettuto sul fascino che questo paese doveva aver esercitato
su di lui, sull’importanza che aveva avuto la scoperta degli autori latino americani,i
quali in quegli anni giunsero anche in Europa con romanzi di grandissimo
successo. Chi non ha letto o non ha sentito
parlare di Gabriel Maria Marquez e del suo romanzo Cent’anni di solitudine? Il
romanzo Il morbo dell’ozio, del
1994, trasferisce nel paese di Casacalenda, Kalena, il realismo magico di quella narrativa. Avevo considerato distrattamente, dicevo, questi romanzi
ispirati al Messico, non considerandoli la vena più autentica dello
scrittore. Adesso so che una parte più
segreta della sua anima aveva trovato in
quel mondo diverso, pervaso dallo
spirito della natura, la realizzazione di un paradiso possibile ormai da noi perduto. E’ il mondo descritto nel romanzo L’amapola della Sierra Madre.
Iniziato nel 2001, il romanzo è stato
completato solo ora, quindi mi offre l’occasione per ripensare allo scrittore
con una consapevolezza diversa.
IL ROMANZO
Il
romanzo si divide in due parti
intitolate la prima La rosa dei ricordi, la seconda Il fiore di gomma. Due
fiori, ma molto diversi. Il senso simbolico dei due titoli lo scoprirete voi
stessi.
La
storia è narrata con uno stile piano e
seducente; italiano e spagnolo, che si
alternano con naturalezza nel racconto, oltre che dare una connotazione
linguistica particolare, esprimono anche la perfetta integrazione delle due
culture nella personalità e nella scrittura di Corsi. Abile la costruzione delle
vicende. Dopo un primo capitolo in cui
un colpo di scena crea le premesse del racconto, con una tecnica cinematografica
di cui lo scrittore è padrone (forse le
tante traduzioni di sceneggiature hanno avuto il loro peso), l’autore fa un
passo indietro per cominciare dall’inizio, come in un lungo flash back:
Alla fine di un lungo viaggio tormentoso su un
vapore dove si è imbarcato come clandestino per andare a San Francisco, in California, il contadino
piemontese Bartolomeo Finzi con i suoi due figli viene lasciato su una spiaggia sconosciuta del
Messico. Qui i tre vengono accolti e curati dalla gente del posto, i contadini
delle terre del Sàbalo, e Bartolomeo si conquista presto la fiducia del padrone
don Ramiro, il quale lo nomina suo
mezzadro e in pratica gli affida la conduzione della sua sconfinata proprietà. Bartolomeo,
diventato lì don Bartòlo, grazie alla sua esperienza e alle sue capacità, non ultima quella di
rabdomante con cui trova nuovi pozzi, riesce a rendere quelle terre ancora più
prospere e ricche.
La
storia continua con la descrizione di questo mondo nuovo e meraviglioso quale appare agli occhi di
Bartolomeo, un microcosmo in cui uomini,
animali, piante, cose vivono a stretto contatto tra loro e nascita, amore,
morte seguono le leggi della natura. Racconta
la vita che si conduce in questa piccola
società chiusa, regolata da leggi non
scritte, ma dove ognuno svolge il proprio compito e regna l’armonia.
La narrazione prosegue suadente come una
favola, e, come nelle favole, la realtà
esterna sembra rimanere fuori da questo mondo. Dei tumulti e delle atrocità
della storia qui giunge solo l’eco. Grandi vicende accadono sullo sfondo, soffiano
dall’Europa i venti di guerra, divampa la rivoluzione, marcia l’esercito di peones di Pancho Villa e Emiliano Zapata, si fa la
spartizione delle terre. Ma è evidente
lo scetticismo dell’Autore nei confronti delle illusioni di giustizia e
progresso sociale che le rivoluzioni e i cambiamenti politici rinnovano ogni
volta. “I governi non cambiano mai, anche quando la gente dice che sono
cambiati”, dice il mendicante indio a Città del Messico quando Don Bartòlo gli
chiede dov’è il Palazzo del Governo. In
realtà la vita del mondo contadino resta
la stessa, legata all’avvicendarsi dei giorni e delle stagioni della terra, qui
come a Casacalenda.
Personaggio
chiave della storia è Abuelita, una vecchia maga e guaritrice dall’età
indefinibile, si dice addirittura che sia stata la compagna di Hernan Cortez, il conquistatore dell’impero degli Atzechi, “depositaria di tutti i segreti del mondo” e
conoscitrice delle virtù delle erbe. Dai suoi consigli dipendono tutti gli
abitanti del Sabalo. Abuelita ha profetizzato che l’amapola, ovvero il
bellissimo papavero con cui si curano tanti malanni, sarà la causa della rovina di quel mondo “ il suo polline traditore un giorno non lontano procurerà ricchezze
proibite e causerà la rovina del Sabalo e del mondo intero”.
Sono
tanti gli aspetti del romanzo su cui soffermarsi, di alcuni parlerà la mia collega,
gli altri non voglio togliervi il gusto di scoprirli durante la lettura. Uno in particolare mi ha colpito. (E non dite
che ho pensato all’EXPO!) la presenza importante delle immagini pittoriche del
cibo, dei frutti tropicali, delle coltivazioni nella narrazione di Corsi.
L’Autore, vibrante ma contenuto quando
tratta di descrivere passioni e sentimenti dei protagonisti, si abbandona rapito alla descrizione di questa
natura lussureggiante. La tavola, il cibo, i frutti della terra, sono un soggetto ricorrente nella
rappresentazione pittorica, letteraria, cinematografica di tutti i tempi. Ultimamente,
nel cinema, ha sostituito come elemento
erotico il sesso.
Nelle esperienze di vita e di lavoro di P.C. il
cibo, la tavola hanno avuto un posto di rilievo. Prova ne sia il numero di
libri scritti sull’argomento, specialmente durante la sua attività con le
compagnie come la Princess Cruises. Non solo il cibo fastoso dei ristoranti
delle navi da crociera, ma anche e soprattutto quello semplice della cucina di
casa, legato ai riti familiari. Come quello che racconta nel romanzo Omicidio
in un paese di cacciatori, quando descrive la cerimonia della pasta e fagioli attentamente
allestita il venerdì dalla madre e a cui
è preposto come sacerdote il padre.
Nell’alimentazione
quotidiana del Sabalo sono i frutti
tropicali a occupare un posto
predominante, anzi sono proprio questi
frutti sconosciuti, offerti al contadino Bartolomeo Finzi appena giunto, a
dargli l’impressione di
trovarsi in un mondo diverso.”Dai panieri venne fuori ogni sorta di cibi…
frutta che non avevano mai visto in vita loro… c’erano delle verghe gialle
lunghe con striature di verde …platanos,
una grande palla capellosa che Crispin col machete spacca in due… una
zucca che non era zucca, sembrava melone, era papaya..”.
La colazione, con i succhi di frutta che
prepara la giovane moglie (pag. 158).
Quale
funzione svolgono queste descrizioni nel
romanzo? Ha una funzione pittorica, premesso che qui sulla tavola predominano le forme sensuali e i colori accesi dei frutti
tropicali, racconta l’accudimento, (vedi la elencazione dei vari tipi di erbe
usate dalla moglie per le tisane del marito a pag 127) e l’ospitalità. Simboleggia il Paradiso terrestre prima del peccato originale.
IL FIORE DI GOMMA
Nella seconda parte del romanzo, intitolata
appunto IL FIORE DI GOMMA (la materia gommosa da cui si ricava l’oppio), la profezia di Abuelita si mostrerà vera. Don Bartòlo, partito per
un giro di perlustrazione alle pendici
della Sierra Madre, scopre che anche le sue terre sono diventate zona di
rifornimento per i trafficanti di eroina.
La conclusione tragica del romanzo sembra preannunciare la fine di quel mondo gentile che
aveva affascinato Bartolomeo Finzi, e l’inizio del mondo moderno.
E CONCLUDO
All’inizio
del romanzo, Bartolomeo Finzi stupito osserva il piccolo
mondo pulito, semplice, onesto, del
Sabalo, ” […] Ognuno aveva il suo compito e non doveva preoccuparsi del compito
dell’altro. Il commercio si perpetuava nel miracolo di un’onestà assoluta senza
che nessuno avesse bisogno di libri contabili o dovesse preoccuparsi di
scadenze. Proprio per questi miracoli di onestà don Bartolo stesso non aveva
mai dovuto preoccuparsi d’altro che non riguardasse la buona produzione
agricola e artigianale. …. Il mais era sempre più abbondante, i fagioli del
Sàbalo i più belli del mondo, i più neri che si fossero mai trovati sui banconi
dei mercati, i pomodori grossi carnosi e senza macchie, le cipolle screziate di
azzurro e di rosso come la porcellana cinese non avevano niente da invidiare a
quelle più famose della Spagna e dell’Italia e l’aglio veniva scrupolosamente
essiccato al sole e poi legato in ventiquattro teste per ogni filo.[…]” . Basta
leggere questo passo, per capire che l’Autore sta
descrivendo la sua società ideale e gli effetti del Buon Governo.
La
storia dell’amapola, invece, che offre la sua bellezza e le sue virtù
medicamentose, e che a causa dell’avidità umana
si trasforma in strumento di morte,
è la metafora di una società che
un perverso rapporto dell’uomo con la
natura porta alla rovina...
Ma
soprattutto il romanzo racconta il rimpianto dello scrittore per un mondo
perduto quale poteva e doveva essere, e quale non è più, neanche forse nel suo
amato Molise.
Una
favola amara, forse, ma sempre, come tutte le favole, bellissima.
Gabriella
Iacobucci©2014 – Tutti i diritti riservati
Intervista a Pietro Corsi (ciccare sul seguente link)
Non ho ancora avuto modo di leggere quest'ultimo romanzo di P. Corsi, ma la recensione di G.Jacobucci, così appassionata e profonda, invoglia sicuramente a leggerlo. Jacobucci intreccia con sapienza il passato da emigranti dei molisani, che tanta parte ha avuto nella ricca e multiforme esperienza di vita e letteraria di Corsi, con l'analisi di quest'ultimo romanzo, innervandovi, elemento non secondario, il significato metaletterario sotteso a tutta la narrazione. Davvero brava! Rita Frattolillo
RispondiEliminagrazie, Rita, per aver lasciato un commento. I giudizi positivi fanno sempre piacere, ma è una fortuna essere letti e capiti da una persona dotata di sensibilità critica ed esperienza letteraria come te.
EliminaCarissima Gabriella, ti ringrazio per le tue parole, per me molto gratificanti, e ti dico che è una fortuna anche conoscere e confrontarsi con persone come te, capaci di invogliare al piacere di una buona lettura. E Dio sa se ce n'è bisogno.
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