lunedì 15 giugno 2020

LO SCAFFALE DEI LIBRI DIMENTICATI - 3 -


Testo di Mariella Di Brigida




LA STANZA GRANDE

di Giose Rimanelli, a cura di Sebastiano Martelli, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 1996.
Titolo originario dell’opera, Una posizione sociale, Roma, Vallecchi, 1959.

Giose Rimanelli (Casacalenda, 28 novembre 1925 – Lowell, 6 gennaio 2018)





Perché
Perché la stanza più grande in cui viaggiare è quella popolata dai ricordi dell’infanzia, densi di ombre o fantasmi in cui perdersi e ritrovarsi, come a dire che gli spazi aperti dai ricordi- quando tutto apparteneva al mondo degli adulti e appariva una conquista lontana e irraggiungibile- sono sconfinati e non bastano le restrizioni cui il nostro tempo triste ci sta obbligando a stabilirne la chiusura. Un romanzo in cui tempo reale e immaginario slittano continuamente dal dato biografico a quello mitopoietico attraverso una narrazione fluida e a tratti incantata del protagonista ci è sembrato una risposta poeticamente valida per ingannare le attese, le aspettative, le contraddizioni.


Trama
Nella Casacalenda fascista di fine anni ’30, Massimo Niro cerca di “dare un senso alle voci dell’infanzia” attraverso una scrittura fatta di flashback, monologhi interiori, cantilene, testi di musica jazz improvvisati dal nonno in ricordo dei tempi americani, quando era stato testimone dell’eccidio di New Orleans. Racconta della notte in cui la madre Francesca sta per mettere al mondo la sorellina e a lui è dato il compito di andare alla ricerca dei grandi affinché la aiutino durante il parto. Una ricerca lunga, solitaria, a tratti vana: il padre è caduto in un sonno profondo dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo, nonno Dominick è così preso dal suonare la tromba che nei suoi viaggi dell’insonnia non tiene conto delle richieste del ragazzo, la levatrice è raggiunta infine dopo che nella traversata notturna del paese Massimo ha pure scoperto la relazione dell’attrice Stella Gomena con il pittore, quello strano personaggio che aveva occupato la stanza dei bambini e che dipingeva donne nude senza testa. Una narrazione suddivisa in tre blocchi che procede a balzi, in cui valgono più le suggestioni, le fluttuazioni tra desideri e paure, rimpianti e aspettative che il dato oggettivo: il protagonista è escluso dalle stanze degli adulti, dai loro discorsi sull’emigrazione, dalle feste del nonno, dall’appartenenza a una posizione sociale, a un ruolo definito, solo con il buio della notte e il vento del cambiamento che “corre fuori squassando il vecchio mandorlo all'ingresso della casa di Clizia”. Sul finale lascia il villaggio di Kalena per raggiungere il seminario: in una società in cui tutto è caduco, effimero, mortale (il monumento di marmo del nonno, la bellezza di Stella Gomena, gli alberi di mandorlo nel giardino) e dove non c'è posto per una piena integrazione, l'allontanamento è l'unica chance attuabile.

Il romanzo inizia così
Il pittore Agresti tornò a casa all’una, e vide la gente e il medico. Capì subito che era successo qualcosa ma senza dir niente si diresse verso la nicchia riservata al padre. Il padre stava lì, immobile come Gesù deposto, con un filo di sole sulla fronte.
- Lo prepariamo? Chiese il medico.
- E lui rispose: - Prepariamolo.
Assunta Donato e Lupa di Spera lavarono e vestirono il vecchio signore. Siccome non aveva vestiti decenti, il pretore gliene diede uno suo.

Dal libro
15 gennaio 1937
La venuta del pittore era soltanto una data, ma ci volle lui per aprirmi gli occhi e dare un senso alle voci dell’infanzia. Me ne accorsi quando mi spedirono in collegio, e trovarono anche i soldi per farlo.
La vera storia non incomincia quando arrivò il pittore: esisteva da prima. Ma col venire del vento e delle corte giornate, dopo quell’estate calda e così felice nella quale avevo visto il geometra mio padre sfacchinare fischiettando nella stanza grande, la memoria ritrova il primo filo dell’impalcatura e cerca tenergli dietro, avanti e indietro nei suoi bizzarri salti senza un principio. Il principio di tutto è forse racchiuso in quella stagione singolare, in quella che viviamo o in quelle di anni prima: ma chi può stabilirlo? Hanno tutte un colore semiparallelo sia nell’infanzia che nella vecchiaia. Strisce che si allungano all’infinito. E nonno Dominick aggiunge: - Sono come le notti senza sonno, che senti passare nell’orto e sul tetto, e non le riconosci mai quando tornano. (p. 33)

Nonno Dominick e i viaggi dell’insonnia
Per di più egli pensava di essere diventato un vecchio cavallo che dorme in piedi pochi attimi, con il corpo che non sente più la grande stanchezza, né cerca più il lungo riposo. Anche gli occhi s'erano fatti più chiari, e più lontani. Potevi navigarci dentro. Non saresti mai arrivato ad una spiaggia. La verità è che in un primo tempo aveva cercato di resistere al sonno. Se lo portava a spasso come si fa con i bambini che si vuole distrarre. Non lo voleva sugli occhi, non lo voleva nel letto. Poi aveva cessato anche di attendere e di lottare. Era finalmente diventato immune. Tuttavia, per precauzione, chiamava intorno a sé gli amici. E gli amici riempivano le sue notti. Si trattava, in fondo, di sopravvivere al buio. Di non restare mai solo con il sonno e con il buio. (pp. 33-34)
[…] In quel momento, dalla stanza di sotto, giunse uno scoppio di voci e un fischio acuto, lungo, che si ruppe in una risata. Il nonno americano aveva riunito i suoi amici, come tutte le sere, e qualcuno - forse Cesare, forse l'avvocato Quintieri - l'aveva convinto a staccare la tromba dal muro. Suonava quando gli girava, e quando gli girava spesso era notte e il paese si era già messo a dormire. Era uscito sulla piazza l'ultimo giorno di settembre coi suoi mutandoni di pelo; era andato sulla piazza per sdraiarsi sul banco del verduriere e poi aveva cominciato a strillare. A una a una si accesero le luci nelle case, e qualcuno uscì dal letto in pigiama, andò in pigiama sulla piazza, si accoccolò sulle pietre e stette a sentire. Dopo tre minuti venti persone stavano accoccolate intorno al banco del verduriere; altra gente si affacciò dai balconi, anche Stella Gomena e Lucrezia, la sua cameriera.
Incominciò una sfilata di note in do. Poi scivolò sull'accordo di settima di fa. Lui chiamava quest'esercitazione un break. Break significa, letteralmente, interruzione. Per lui significava anche introduzione. Spesso incominciava in quel modo. Succedeva quando sentiva arrivare in casa la pazzia della solitudine, e gli amici non erano arrivati. Se avesse avuto voce avrebbe agito come i cantori di blues: Big Bill Broonzy o Witherspoon. Ma senza tromba non aveva fiato. I suoi motivi, spesso inventati là per là, non avevano niente di classico o di piacevole. Apparivano rozzi anche nella forma. Ma erano classici nella stesura, sempre dodici battute. (p. 70)

Il padre, Enrico Niro
Enrico Niro urlava, sbraitava, a volte menava le mani: avevo una paura fisica di lui. Ma dimenticavo presto le urla e le percosse. [...] Provavo una sorda gelosia per mio padre. Quelli erano i momenti in cui mi sentivo di non appartenere a nessuno, né di esistere per nessuno. Ma restavo lì a vegliare. (pp. 76 e 92)

Stella Gomena
Ma Stella vestiva sempre in maniera irreprensibile. Sapeva dei sentimenti delle signore, ostili a lei sin da quando calcava le sconquassate tavole del palcoscenico, e se ne mostrava, ora, un po’ avvilita, dispiaciuta. Forse per queste, ed altre ragioni, non era stato difficile a Francesca Niro comprendere che l’attrice aveva sposato don Mariano in un momento di disperazione. Più che i conti lasciati insoluti all’albergo Cavajola, doveva averla spinta a quel matrimonio una ragione profonda del cuore. Mia madre, tuttavia, si legò a lei di amicizia sincera, perché non riusciva mai a tradire un suo naturale e femminile istinto di solidarietà. (p. 43)

Sogno o son desto?
Ma ora questa pena non andava via. Era pungente come il fischio del vento che rincorreva la sua coda nel cortile, e io potevo vederlo: mulinava imbottigliato sbattendo sotto le grondaie. Poi le risalì e si buttò sulla strada, dall’altra parte del muro, e fu come se mi fossi liberato – io stesso – di un peso. Vidi i nudi decapitati uscire dalle cornici, scendere le scale di casa con Cesare che cercava di rincorrerli e fermarli.
Avevano il corpo di Stella Gomena.
Provai freddo, una sensazione di colpa. Ma durò l’attimo che s’impiega a chiudere gli occhi e riaprirli. Riaprendoli mi ritrovai davanti alla porta del nonno. La spinsi, e il caldo di fuoco e di gente che stava dentro mi ridonò, per reazione, il freddo di fuori. Poi finì anche l’ansia: il buio era alle spalle. (p. 120)

Il finale
Partii nella prima settimana di ottobre, il giorno stesso del ritorno di Stella Gomena. Era ingrassata, era incinta, esprimeva felicità e amore per tutti. - Sicché te ne vai, Massimino? - disse.  - Cerca di studiare, di essere bravo.
[…] M'incamminai con mio padre verso la stazione, facendomi ballare il tacco di Stella Gomena nella tasca dei pantaloni lunghi. (pp. 187-188)

Hanno detto
Sebastiano Martelli- Il vento, la notte, la luna, i cani che “uggiolano”, le streghe, le prefiche coi loro presagi di insicurezza e morte alimentano la “malattia” del ragazzo protagonista. La paura dell’oscurità si dilata fin quasi a inghiottire Massimo che resta “con gli occhi aperti nel buio”. Materiali simboli e metafore legati allo spazio antropologico – “quando la mosca sta nel calamaio e spasima cercando la bocca del cielo” - si prolungano e amplificano nel sogno: il paesano morto per la caduta di una tegola spinta dal vento, il corpo che si decompone nella bara e l’inarrestabile delirio dei fratelli, accettati e respinti, Manuela nel cerchio di attrazione e fuga, la zia col desiderio negato di un bambino. Sono pagine incastrate l’una nell’altra come scatole cinesi sottoposte a una forte destrutturazione realistica; infilate nel flusso continuo di proiezioni oniriche e fantastiche conservano il cordone ombelicale con l’io narrante perché, come efficacemente significa l’epigrafe stendhaliana posta ad apertura del romanzo, “l’unica realtà è la paura o il dolore”.
Carmine Mezzacappa- La narrazione e l'intreccio sono subordinati allo stato d'animo, e la rivelazione del momento diviene l'essenza dell'opera.
Franco Betti- Il primo impulso referenziale associativo è quello di ricordare che Sant' Agostino (Confessioni, X, 7, 12-27, 38) qualificava infatti la “memoria” aula ingenti, o, potremmo quindi dire “stanza grande”. Detto questo si illumina meglio lo scavo coscienziale, atemporale, transpsichico, che esprime la scrittura rimanelliana, che come ogni valida opera d'arte prima scompone e poi ricompone la realtà o meglio ciò che forse era stata realtà, in un amalgama, in questo caso psico-linguistico, di alta efficacia narrativa. La “stanza grande” è la fucina, il palcoscenico, da cui nascono e su cui si muovono i fantasmi, o personaggi del romanzo.
                                                                                                                Mariella Di Brigida

7 commenti:

  1. Trovo davvero molto interessante la riscoperta di uno scrittore come Giose Rimanelli perché i suoi scritti viaggiano sempre sul sentiero della memoria che lo rimanda quasi sempre al Molise... Complimenti.

    RispondiElimina
  2. Mi piacerebbe leggere il libro. Mi pare che la perdita di un mondo ( per il nonno qui è quello americano) e la partenza, oppure lasciare un mondo per scoprirne un altro, come l'eroe greco Ulisse, siano temi presenti in tante opere della letteratura molisana.

    RispondiElimina
  3. Anche questa volta, cara Gabriella colgo il tuo invito alla lettura, da questa intrigante presentazione infatti scaturisce un mondo che pur sentendo già di conoscere, è il Molise, ed io sono molisana....tematiche ricorrenti e ...dolenti...il distacco dalla infanzia, dal paese d'origine..un mondo comunque prezioso , più di tutto prezioso il raro , per l'epoca, ma purtroppo ancora non sufficientemente apprezzato e valorizzato, sentimento di solidarietà femminile manifestato dalla mamma verso la chiacchierata attricetta di avanspettacolo...mi ha fatto pensare alla Monica Vitti di Polvere di stelle e mi sembra un raro esempio di come uno scrittore possa comprendere il cuore delle donne. Vincenza Pede

    RispondiElimina
  4. gabriella Iacobucci7 luglio 2020 alle ore 10:07

    In un suo romanzo, lo scrittore Nino Ricci definisce così il sogno:" ...la piccola stanza senza porte che la mente crea per se stessa". Quello racchiuso ne La stanza grande di Rimanelli,il romanzo scelto con grande sensibilità letteraria da Mariella Di Brigida per questo 'scaffale', è il mondo dei ricordi. Due scrittori italoamericani e una stessa metafora ricca di suggestioni.

    RispondiElimina
  5. La "Stanza grande" di Giose Rimanelli è un libro nel quale si dipanano una serie di ricordi legati all'infanzia del protagonista Massimo Niro. Come spesso accade anche a noi, nell'entrare nella "stanza grande" della nostra infanzia, i ricordi dei fatti e dei luoghi sembrano slegati, tessere di un mosaico di un tempo in cui era difficile dare continuità di significato alle azioni, ai personaggi ed agli ambienti. Si ricordano così dei momenti significativi ed importanti ma come blocchi a sé stanti, apparentemente non coesi, con la sensazione profonda della mancanza di un proprio ruolo specifico e chiaro nel gruppo sociale in cui ci si trovava a vivere. Solo allontanandosi da esso, il protagonista riesce a dipanare i ricordi degli eventi all'interno di una storia più strutturata che comunque è sempre commemorazione di un tempo incantato e sospeso, in cui si procede facendo salti avanti ed indietro, "senza un principio", in una dimensione onirica e immaginativa. Mi piacerebbe molto leggere il libro di Rimanelli, complimenti per la tua scelta Gabriella.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Grazie, e passo i complimenti per la sapiente scelta del libro a Mariella Di Brigida, bravissima autrice della scheda.

      Elimina