Qui aggiungiamo un ricordo
personale e inedito di Gabriella Iacobucci,
che lo incontrò in Canada per definire con lui il progetto di una traduzione
italiana del suo primo libro The Oka Crisis, appena uscito, e si
recò con lui nei luoghi della vicenda, a Oka.
JOHN CIACCIA, UN IDEALISTA
MOLISANO TRA GLI INDIANI MOHAWKS
di Gabriella
Iacobucci
John Ciaccia lo conobbi anni fa a
Montreal, e come mi era successo altre volte veicolo dell’incontro fu un libro.
Il libro, appena uscito -era l’autunno del 2000- si intitolava The Oka Crisis, e lo trovai in
casa dei miei parenti. Mio cugino mi disse che l’autore era un canadese di
origine molisana, anzi che sua madre era di Limosano come lui, e che abitava lì
a Beaconsfield.
Un po’ prevenuta, ma incuriosita dal titolo
insolito, lo sfogliai, e presto dovetti rendermi conto che avevo davanti a me
una storia interessantissima e una personalità non comune. Il libro, un
memoriale, era il racconto appassionante della vicenda umana e professionale e
politica dell’Autore, emigrato dal Molise da bambino e diventato un noto
avvocato e poi importante uomo politico. In particolare si soffermava su uno
dei momenti più difficili della sua vita politica, quello in cui aveva dovuto
sostenere il delicato ruolo di negoziatore nella Crisi di Oka.
Il fatto accadde nel Quebec ai tempi del suo
mandato come Ministro degli Affari Indiani del Quebec, e attirò sul Canada
l’attenzione di tutto il mondo (perfino il Parlamento Europeo intervenne con
una risoluzione). Una storia semplice e apparentemente scontata, se fosse la
trama di un vecchio film di indiani e non fosse, invece, un fatto realmente
accaduto nel luglio del 1990.
Un terreno conteso tra i
proprietari di un campo di golf, ai quali serve per ampliarlo, e gli indiani
Mohawks di Oka, per i quali quel terreno è sacro perché vi sono sepolti i loro
avi, dà origine a uno scontro armato. Gli indiani alzano le barricate sulla
strada di Oka, interviene la polizia federale, presto costretta a ritirarsi, viene
ucciso un poliziotto. Come può essere successo che forze di polizia ben
equipaggiate siano tenute in scacco da un gruppetto di indiani, e che una
piccola comunità riesca a paralizzare la regione per settantotto giorni? Il
Canada è sbalordito.
John Ciaccia |
La Crisi di Oka, come la
chiamarono, non fu in realtà un episodio qualunque, ma significò lo scontro tra
due culture, coinvolse i gruppi ambientalisti, svelò i contrasti di potere del
mondo politico canadese. E Ciaccia, allora Ministro degli Affari Indiani del Quebec,
è così che la racconta.
Inoltre Ciaccia si rivelava un grande
narratore. Il suo memoriale si leggeva come il più avvincente dei romanzi, e in
particolare colpiva la mia immaginazione questa storia di un molisano che si
trova a dirimere un conflitto tra bianchi e indiani…
Tornando a me, ero sempre più entusiasta.
L’autore che scoprivo in quelle pagine era un uomo dalla vasta cultura
umanistica, un idealista, e infine un grande narratore. Decisi ancora una volta che il libro andava
fatto conoscere da noi e che dovevo tradurlo in italiano.
Chiamai John Ciaccia a telefono e
il giorno dopo andai a trovarlo. Abitava in un bellissimo cottage sul lago,
vicinissimo a quello dei miei cugini. Mi accolse nel suo studio dalle pareti
rivestite di legno pregiato e ricoperte di libri e di foto e a lungo mi
raccontò di sé, della sua storia, del suo libro, e soprattutto dell’episodio di
Oka. Di più, mi invitò a fare una gita in auto con lui per farmi visitare i
luoghi in cui erano accaduti quei fatti. Ricordo che il pomeriggio autunnale
era tiepido, e che il paesaggio di boschi di aceri lungo la strada era tutto
uno splendore rosso e giallo. Ricordo anche che Oka non era vicinissima, e che
dovemmo prendere un traghetto per arrivarci. Ma alla fine fummo lì, sulla strada
dove gli indiani avevano alzato una barricata e aperto un conflitto a fuoco con
la polizia, e infine nel vecchio cimitero indiano che era stato l’oggetto del
contendere…
Mi
restarono, di quell’incontro, l’edizione francese del libro che l’Autore mi
regalò, tra le pagine alcune foglie d’acero ingiallite raccolte nel cimitero
indiano, qualche foto scattata da John Ciaccia.
Cimitero di Oka |
Ma
soprattutto mi resta ancora adesso il rimpianto di non essere riuscita,
nonostante i miei sforzi, a realizzare l’edizione italiana di quel libro per il
quale John Ciaccia aveva offerto i diritti di pubblicazione e del quale una
volta in Italia avevo iniziato la traduzione per una casa editrice.
Quando è morto, più di un mese
fa, sui giornali locali si è parlato di lui con gli accenti encomiastici che
sempre si usano in queste occasioni e che lui meritava. Pochi in realtà lo
conoscevano veramente.
G. Iacobucci a Oka, foto scattata da J. Ciaccia |
Lui è tutto in questo libro, La Crisi di OKA,
il cui sottotitolo è, non a caso, “A mirror of the soul”, Uno specchio della
nostra anima.
Il brano che segue è tratto dai
primi capitoli del libro.
LA CRISI DI OKA
di John Ciaccia. Trad. di
Gabriella Iacobucci
[…] Solo adesso posso tornare a parlare dei fatti
che accaddero in quel 1990. Per anni non ne sono stato capace.
Aveva
ragione Shakespeare quando faceva dire ad Amleto “Vi è un destino che regola le
nostre vite”? I fatti non accadono da soli o per caso. Ci sono forze oscure che
agiscono e delle quali non siamo consapevoli. Alcuni dicono che potremmo
evitare certi errori se solo leggessimo la storia e ne mettessimo in pratica
gli insegnamenti. Tutte le guerre, sin dai tempi dell’antica Grecia, si
sarebbero potute evitare applicando gli insegnamenti contenuti nella Storia
della Guerra del Peloponneso di Tucidide. O dopo di lui erano tutti ciechi e
sordi? Secondo Barbara Tuchman le guerre del passato sono la conseguenza di
decisioni politiche che niente avevano a che fare con gli interessi delle
nazioni. Se occorresse una ricetta per produrle, le calamità, questa sembra fatta
apposta.
Il
carattere è destino, come credevano i Greci? Il corso degli eventi di un paese
è determinato dal carattere di quelli che sono al potere? O la questione è più
complessa? In “L’uomo moderno alla ricerca di un’anima” Carl Jung afferma che
intimamente noi vogliamo cose diverse da quelle che diciamo di volere, e che
siamo in guerra con noi stessi. Questo basterebbe a spiegare le follie della
storia?
La
Crisi di Oka, come la chiamarono, non riguardò solo i rapporti con gli Indiani.
Essa fece vedere cosa è governare, l’idealismo e la realtà del potere.
Interessò insieme la storia, la natura umana, lo scontro tra culture diverse,
l’anima.
L’11
luglio 1990, un mercoledì, un membro del mio staff mi svegliò alle 7 del
mattino per dirmi che la Sureté del Quebec aveva assalito le barricate
innalzate a Kanehsatake dai Mohawks per impedire che i loro territori sacri -i
luoghi dove erano sepolti i loro antenati- venissero usati per ampliare un
campo di golf. Uno dei poliziotti, il caporale Marcel Lemay, era stato ucciso.
La polizia era stata costretta a ritirarsi. Contemporaneamente, i Mohawks di
Kahnawake (una riserva sull’altro lato del Lago di St. Louis) avevano innalzato
barricate sul Ponte Mercier che collegava alla città Chateauguay e le altre
cittadine intorno. Era il caos.
Cos’era
accaduto? Com’era possibile che i rapporti tra indiani e comunità bianca si
fossero deteriorati fino a questo punto? Perché la polizia aveva attaccato?
Com’era successo che delle forze di polizia ben equipaggiate fossero state
respinte da un gruppetto di indiani protetti solo da quattro tavole di legno?
Eravamo tutti sbalorditi.
PARTE PRIMA
Le colpe dei
vostri antenati, Romani, ricadono ora su di voi.
Orazio, Le Odi
IL VILLAGGIO DEL LAGO DELLE DUE MONTAGNE
“Giovane pino nero, nato al centro della terra,
ho fatto il tuo sacrificio.
Conchiglia bianca, turchese, bella orecchia di mare,
nera
come il giaietto, bella pirite, bel polline blu,
polline rosso, bel polline, ho fatto il tuo sacrificio.
Oggi, ti dico, sono diventato tuo figlio.
(Preghiera Navajo)
Sulle
rive del Lago delle Due Montagne, una quarantina di chilometri a nord ovest di
Montreal, si stende una cittadina di circa 1750 anime.
Per
molti aspetti è uguale a tutte le altre cittadine sparse nel territorio del
Quebec. Un corso principale, con il suo supermarket e i piccoli negozi, case
graziose ma senza pretese, niente fabbriche o industrie.
Ma
questa è un po’ diversa.
In
origine era un avamposto per il commercio delle pellicce e fu chiamata il Paese
del Lago delle Due Montagne. Poiché il nome era troppo lungo per un indirizzo,
le poste canadesi lo cambiarono. Il nuovo nome fu Oka, che nella lingua
Algonquin significa “pesce dorato”.
Un po’
fuori di Oka si trova un monastero retto dai Cistercensi, ordine religioso
fondato in Francia nel 1098. Le loro
rigide regole del silenzio, della preghiera e del lavoro manuale furono ripristinate
nel diciassettesimo secolo dall’abate de La Trappe, così i membri dell’ordine
sono detti monaci trappisti. Era loro consuetudine vendere una parte dei
prodotti ricavati dal lavoro della terra fuori del monastero, e quello di Oka
divenne famoso per il suo formaggio.
La
comunità indiana di Oka conta approssimativamente 750 persone, ma, a differenza
della maggior parte delle altre comunità del Canada, non è una riserva indiana
vera e propria. Alcuni indiani vivono fianco a fianco con i loro vicini bianchi.
Altri vivono nelle periferie della città, in abitazioni sparse su quelli che
molti chiamano “territori indiani”.
C’è
anche un campo di golf a nove buche, situato, sfortunatamente per tutti, vicino
a una località detta “I Pini”.
La zona
sembra abitata, ma non si vede nessuno. Non ci sono giardini, coltivazioni,
piante o tracce della mano dell’uomo. E non è neppure un luogo selvaggio.
Sembra che sia stata plasmata dallo spirito di uomini che avevano un sacro
rispetto per quella terra, e gli alberi si protendono verso l’alto come per
chiedere la protezione del Grande Spirito.
Le
ombre gettate dal fogliame sembrano appartenere agli indiani che per primi
giunsero in questo posto e rimangono lì a proteggerlo. Alcuni vi sono sepolti,
e ciò lo rende un luogo sacro.
Non è
un pezzo di terra qualsiasi, con alberi, cespugli, fiori ed erba. Questo è
l’essenza di una cultura, possiede un’anima.
Vi è
una grande chiesa tenuta dai monaci dell’ordine di San Sulpicio che vennero sul
lago per convertire la gente del posto. Nel 1717, Re Luigi xv concesse diritti
feudali a questa mission de sauvages con l’espresso fine di convertire gli
indigeni. Al tempo, il termine sauvage significava “primitivo”, più che
selvaggio. Anche Jean Jacques Rousseau tessé gli elogi delle qualità del nobile
selvaggio.
Sotto
il profilo politico, convertire gli indiani certamente serviva gli interessi
del re. Infatti quanto più cresceva il numero dei seguaci di Cristo, tanto più
aumentava quello dei sudditi del Sovrano.
I
monaci non solo costruirono una chiesa, ma eressero anche una Via Crucis:
tavole dipinte che rappresentavano tutti i momenti della Passione di Cristo
fino alla Crocifissione e alla Deposizione Questa rappresentazione della
Passione non era stata fatta a beneficio dei fedeli cattolici, ma per
convertire gli “indiani”. Fu perfino inserita all’interno delle aree boschive,
nel loro ambiente naturale, per farli sentire a loro agio e ridurre al minimo
l’impatto culturale.
Suppongo
che le intenzioni dei monaci fossero buone. Il loro approccio fu certo più
civile di quello degli Spagnoli con gli Aztechi e i Maya. Probabilmente lo
spirito che animava la loro missione era lo stesso che animò, a Cordova, quelli
che costruirono una cattedrale proprio sopra una moschea. E tradotto in parole
suonava così:
”Io vi
ho sottomesso e conquistato. Voi non avete più il diritto di accostarvi al
vostro dio. Io solo conosco il vero Dio. Voi potete venire a visitare le vostre
terre mistiche, ma in realtà voi entrate nel tempio della fede cattolica.
Guardate il figlio di Dio che soffrì per espiare i vostri peccati e per
portarvi la Parola del vero Dio. Voi dovete adorare il mio Dio. Non v’è altro
dio che il Signore Dio Tuo”
In
questo modo, i Sulpici speravano di compiere la volontà divina e di
salvaguardare gli interessi del Re di Francia. Religione e politica sono andate
a braccetto da sempre.
Oka non
era una cittadina comune, ma era una comunità pacifica. E su questa comunità
piombarono il conflitto, il disordine, la disperazione, le barricate, la
violenza e la morte.
Articolo pubblicato sul mensile “Il bene comune”, ottobre 2018.
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